Il tempo e il suo senso

Il tempo e il suo senso (2006)


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La questione del tempo

Vinciamo i Mondiali di calcio: 2006. Ripenso all’altra volta: 1982. Per me è un ricordo vivo, non mi sembra molto tempo fa… ma quando ne parlo con gli universitari mi accorgo che loro non possono ricordare; le matricole sono nate 4/5 anni dopo!

C’è il Battesimo di un bambino nato da una famiglia di amici, ex-universitari. Penso che questo bambino avrà 14 anni nel 2020, 24 nel 2030… ma anche per lui, nato già nel III millennio cristiano, il tempo sarà limitato: non vedrà mai un cambio di millennio e quasi certamente neppure un cambio di secolo, come abbiamo invece visto noi.

Prendo l’agenda perpetua del cellulare, per fissare un appuntamento; ma sbaglio a digitare: sabato 16 luglio 2101, appuntamenti della giornata… Come non sentire un brivido: quali appuntamenti per quella data?!

Muore un amico, ancora giovane, in un incidente stradale. Esce di casa come tutti i giorni, come tutte le volte. Forte, spensierato, pronto a divertirsi. Non saluta neanche con particolare affetto. E invece non torna più. Nessuno, neanche i suoi cari, lo vedrà più. Per lui il tempo è finito. Per sempre. Dov’è ora?

Nel 2200 nessuno saprà di noi, di me, di te. Come se non fossimo neppure esistiti. Forse per qualcuno, rarissimo, diventato importante, ci sarà una lapide, un monumento, un ricordo in un libro; ma è una magra consolazione, anche per il più orgoglioso degli uomini. Perché intanto non potrà saperlo, perché non c’è più. Eppure siamo esistiti, io sono esistito, tu sei esistito. E ci siamo magari fatti tanti problemi inutili; forse ci siamo affannati e perfino accapigliati tra noi. Invece tra un po’, per questa umanità e per questo intero universo, è come se non fossimo mai nati; nessuno saprà.

Dove va la mia vita? Dove corre il tempo? Che farne del tempo che abbiamo da vivere, che per lungo che ci possiamo augurare è comunque limitato?

Ecco… il tempo è una cosa seria. Non facciamo finta di non accorgercene, di non pensarci.

Siamo nati nel tempo. Abbiamo cominciato ad esistere nel tempo, in un tempo. Abbiamo da vivere un certo periodo di tempo. Sappiamo: quanto è la cosa più incerta. La cosa più certa è invece che sarà un “quanto”, cioè comunque limitato. Non sarà per sempre. Siamo comunque chiamati ad uscire dal tempo. Per che cosa? Il Nulla o l’Eterno? La disperazione o la felicità infinite?

Una stagione che ha voluto distruggere orgogliosamente ogni tabù, ne ha creato uno enorme, inconfessato: il tempo che scorre, inesorabilmente, e per ciascuno di noi è limitato. E’ il recente tabù della morte.1 La cultura dominante, che non sa o cerca di nascondere ciò che anche il più umile contadino sapeva bene, tenta in ogni modo di non farcelo pensare, di convincerci che è inutile e perfino nocivo pensarci. Abile e sciocco trucco di chi finge di non porsi la domanda, perché non sa dare la risposta. E questo è imbarazzante per una società che pretende di dare risposta a tutto e fornisce sempre un “esperto” per ogni cosa.

Sappiamo invece che è nocivo, anche psicanaliticamente2, rimuovere un tale problema; che infatti da quando l’uomo è uomo è il problema, come vediamo anche dai più antichi segni dell’apparizione dell’uomo sulla terra, così come in ogni civiltà di ogni tempo e luogo.

Beati invece coloro, cioè veri e autentici uomini, che avranno il coraggio di confessare, anche a se stessi e perfino a qualche amico fidato, che questo è il problema della vita.

Non si può fare un viaggio – dove peraltro ci sembra tanto di guidare noi, ma intanto non possiamo frenare e siamo anche confusi sull’itinerario – senza domandarsi se l’inesorabile meta sarà il Nulla o l’approdo all’Essere, la negazione totale di noi stessi o peggio ancora la terribile possibilità di una disperazione (nel senso etimologico del termine, cioè senza più alcuna speranza) eterna, oppure nella pienezza della vita e di noi stessi, così che quella pienezza, quell’autentica ed infinita gioia farà sparire ogni dolore ed anche ogni rimpianto. Viaggiare senza chiedercelo, senza sentire che questo è il problema, non è essere spensierati, è essere stupidi. Ed anche se qualche tappa gioiosa o perfino solo allegra potrebbe distrarci e farci credere che possiamo accontentarci, l’incubo di stare viaggiando verso il Nulla brucerebbe al fondo ugualmente ogni allegria ed ogni illusione, anche se ci sforzassimo di non darlo a vedere.

Non parliamo poi di chi è immerso totalmente nella noia della routine quotidiana, specialmente in questa società di mercato, dove sembra si lavori per guadagnare solo per poter poi spendere, per poi ricominciare a lavorare… Come le formiche, che lavorano tutta l’estate per mettere da parte ciò che mangeranno d’inverno e poi ricominciano. Ma loro non sono fatte per porsi certe domande, altrimenti si suiciderebbero!

Un giorno, già anni fa, in un noto quartiere dove circolano abitualmente molti tossicodipendenti, uno di quegli uffici della pubblica amministrazione – perché appunto oggi c’è un ufficio ed un esperto per ogni problema, ma mai per il problema vero della vita – che talora pensano di risolvere le questioni con qualche slogan, magari anche costoso, fece affiggere un manifesto a loro indirizzato che recitava un ovvio “non drogarti! la droga ti uccide lentamente”. Qualche mattina dopo, sotto uno di quei manifesti, i destinatari fecero trovare questa cinica scritta: “non abbiamo fretta”!

Ecco, anche la droga, nelle sue molteplici forme e nonostante i mille motivi che possono indurre un giovane ad entrarvi e gli abissali guadagni che rendono ai suoi commercianti, è fondamentalmente una scelta di fuga dalla vita, da una vita che non basta, una scelta di morte, “una malattia dello spirito” la definì una volta Giovanni Paolo II.

Del resto è ormai noto che la crescita esponenziale di suicidi giovanili, cosa che comincia a preoccupare anche le pubbliche amministrazioni, si registri proprio nei Paesi e nelle regioni, anche in Italia, con il maggior benessere e perfino più efficienti per affrontare ogni problema (parziale…). E’ il paradosso di un cosiddetto “mal di vivere”, che attanaglia molti oggi, ma che risulta appunto particolarmente presente proprio là dove non ci sono gravi problemi materiali. Paradosso in realtà incomprensibile solo per chi non sappia in fondo chi sia davvero l’uomo e che egli “non vive di solo pane”3. Suicidi, droga e incidenti stradali (specie i quasi cercati incidenti del sabato sera, quel giocare incredibilmente con la vita e con la morte) sono in quei Paesi e in quelle regioni le prime tre cause di morte giovanili. E’ una tragica, ulteriore conferma che quando si vive da alienati (appunto come le formiche, ma per loro va bene così) tutta una settimana, condannati a studiare o a lavorare senza pensare, per poi vivere un fine settimana condannati a “sballarsi” ancora per non pensare, cioè quando non si ha più il coraggio di rientrare nel più profondo di noi stessi e di far emergere il problema, la questione di fondo (che non è il sesso, e neanche il denaro), è non un vivere, ma un sopravvivere. Un viaggio nel tempo senza sapere più dove si sta andando e dove si vuole andare. Appunto, un girare a vuoto. Cercando eventualmente di saziarsi di illusioni, che invece non possono saziare. Questa vita prima o poi fa naufragio, anche se cerchiamo in ogni modo di nasconderlo.

Il “carpe diem”

Sappiamo tutti che il tempo corre: basta riguardarsi allo specchio dopo qualche anno o rivedere una fotografia di anni fa, senza fare finta che il ricordo non desti anche una sottile malinconia. Nessuno lo può negare, certo.

Tutto scorre, panta rhei, notava già Eraclito. E sembra che l’unica ricetta, oltre a quella appunto nociva di non pensarci, sia il carpe diem, il vivere l’attimo fuggente.

Certo, l’attimo fugge. Quello appena passato non c’è più. Non tornerà più. E nessuno potrà cambiarlo, per sempre. Quando, rapiti dalla bellezza di un momento vissuto, mossi da una certa nostalgia, lo vogliamo ripetere, poi inconfessatamente ci accorgiamo che intanto non è più quello; così, dopo lo sforzo di riprovarlo, scende nel cuore proprio il sottile dispiacere che è stato bello, ma è un altro. Per cui conviene forse cambiare. Perché intanto siamo noi che siamo cambiati. “Non ci si bagna due volte nello stesso fiume”, diceva appunto Eraclito.

Siamo certo contenti che certe situazioni penose non ritornino. Ci guardiamo bene da navigare in quei paraggi, burrascosi. Ma anche in questo caso, com’è terribile talvolta che quel gesto o quella parola detta o ascoltata non possa essere più ritirata e rimane comunque fissata per sempre. Non avremmo forse voluto dire o sentire quella parola, ma intanto ormai c’è stata. Potrà essere dimenticata, speriamo, oppure ricordata come un macigno sulla nostra o altrui storia anche dopo anni. Non abbiamo alcun potere sul passato. Non c’è più.

L’attimo futuro, vicino o lontano, non c’è invece ancora. Possiamo attenderlo, prepararlo, invocarlo; o cercare di evitarlo. Così che il tempo dell’attesa ci sembra talora o troppo lungo o troppo corto; ma intanto non c’è ancora. Rientra per così dire solo nel contingente, nel possibile; forse più spesso nell’impossibile, come nel caso non della vera speranza ma del sogno.

E l’attimo presente? Sembra l’unico che abbiamo, ed in effetti è l’unico su cui la nostra libertà abbia un qualche potere immediato; ma è appunto “fuggente”. Anzi, in sé non riusciamo neppure a definirlo, tanto è intrattenibile. Tra l’inizio e la fine di questa parola che leggiamo, il futuro è diventato passato. Il presente è un’infinità di micro-attimi, un’inafferrabile congiunzione tra un futuro che non c’è ancora ed un passato che non c’è più. Ma è l’unico che abbiamo. Ed in quella congiunzione tra futuro e passato il contingente futuro diventa passato, fissato ed immutabile, per sempre.

C’è dunque una saggezza in quel carpe diem. Perché non ho altro. Non c’è altro dove la mia libertà possa far sì che un possibile diventi un evento, diventi cioè vita. E, pur non potendo rimanere, perché tutto scorre, rimanga almeno nella memoria, nella coscienza che in esso può esservi cresciuta; e possibilmente lasciando traccia positiva anche in altre coscienze. E’ vero, ogni istante è un’occasione. Che non torna. Che non si ripete. Ce ne saranno altre, ma quella non torna. Accorgersi del tempo che fugge può donare saggezza.4

Per questo ogni proposito sul futuro rimane inutile se non diventa decisione ora, nell’attimo fuggente. Non perdere l’occasione! Quanto può essere saggia questa spinta alla nostra libertà. E’ vero che un’occasione non colta è perduta, per sempre. Per questo, ogni attimo può essere ed è un’occasione per la nostra edificazione o distruzione. Quando poi il mio tempo finirà, quando termineranno cioè le “occasioni”, non potrò più dirmi “la prossima volta andrà meglio o farò meglio”, perché semplicemente non ci sarà più un’altra volta. E neppure un’altra vita. Questa vita è un’occasione unica.

Allora il problema non è neppure accorgerci che l’attimo è fuggente. Intanto così è, senza alcuna possibilità di contestazione, senza alcuna possibilità di sottrarmi a questo inarrestabile flusso. Nonostante tutti i tentativi di evasione; anche in quel tentativo, oggi appunto così diffuso più di quel che non si confessi, e non solo tra giovani, di ottenere l’impressione di un fluttuare nel vuoto e fuori dal tempo, che il cervello può dare in certi momenti, scosso da sostanze chimiche, quelle sostanze che non solo hanno chiesto un prezzo (su cui ruotano terribili commerci, violenze, guerre e movimenti bancari internazionali) ma che presentano successivamente un conto salato, di solitudine, d’angoscia e di rabbia.

La questione non è allora neppure il carpe diem, intanto non c’è alternativa. Proprio perché sono stato fatto libero – e può essere paradossale che “siamo condannati ad essere liberi” (J. P. Sartre), ma la natura umana è così (ulteriore prova dell’evidenza che non siamo nostri, che non ci siamo inventati, ma siamo “dati” a noi stessi) – e quindi non posso non scegliere, la questione principale non è cogliere l’attimo, non perdere l’occasione, ma il “per che cosa” cogliere l’attimo fuggente.

C’è in giro uno stressante affanno a non perdere l’occasione. Ma, visto che comunque qualsiasi cosa scelga – fosse anche quella di non far niente o di adeguarmi a quello che fanno gli altri – è comunque una scelta; e visto che quando l’uomo sceglie è comunque attirato da un bene, perché è un essere sostanzialmente, inesorabilmente e infinitamente affamato di felicità, allora il problema non è tanto che io colga l’attimo, ma che mi chieda “per che cosa?”. Cioè: non devo perdere l’occasione per essere felice. Questo è giusto: siamo al mondo per questo. E felicità è un altro nome dato alla crescente percezione di diventare sempre più se stessi, cioè il divenire ciò che dobbiamo diventare. Ma la domanda vera è allora cosa sia la vera felicità, cosa mi edifichi veramente; per cui sarei stupido a non cogliere tutte le occasioni per diventare davvero ciò che devo essere. Fare cioè ogni passo per camminare verso quella direzione, quella meta che farà sì che io sia finalmente me stesso, cioè davvero felice. Altrimenti il carpe diem può diventare una terribile stoltezza: confondendo il piacere del momento con la vera gioia (questo è l’errore dell’edonismo imperante), il carpe diem diventa lo spasmodico quanto deludente affanno di spremergli il massimo piacere possibile, ma è un modo non per edificarsi ma per distruggersi.

Ritorna quindi il problema, il tabù inconfessato: dove fugge quest’attimo? E dove va tutto il tempo? Per quel che spetta a me, cioè alla mia libertà, in quel presente che è l’unico ambito dove posso giocarla, il vero problema è verso quale meta posso dirigere i miei passi, così che io diventi finalmente me stesso, il ciò per cui esisto. In altre parole, la questione del tempo si intreccia nell’essere umano con la questione della verità di se stessi. Perché l’uomo è un essere in divenire; deve cioè sempre di nuovo diventare se stesso, deve diventare sempre ancora e di più quello che è, il ciò per cui esiste.

Il tempo, il divenire e l’Essere

C’è un divenire delle cose e dell’universo. Tutto è; ma proprio perché non è l’Essere pieno, diviene. Se fosse l’Essere pieno non diverrebbe, perché divenire vuol dire perdere o acquistare essere. Per questo il divenire, fosse anche la totalità del divenire, non è l’Essere.

Che questa fosse la questione di fondo lo avevano già colto i primi filosofi, i Presocratici. Ma non l’hanno risolta, come riconosce Platone.

Parmenide aveva evidenziato una cosa ovvia, ma in fondo geniale: non solo che l’essere non è il nulla, ma che non può divenire, perché non può venire dal nulla o andare nel nulla. Arriva però per questo a censurare (la censura è la ricorrente tentazione ideologica di coprire l’incapacità di risolvere un problema) il divenire, rendendolo apparenza. Invece gli esseri divengono davvero.

Eraclito, accorgendosi però che tutto ciò di cui facciamo esperienza diviene, arriva a censurare l’essere; ma in realtà non c’è neppure il divenire, come assurda terza via tra il nulla e l’essere, ma solo cose (cioè esseri) divenienti.5

Il problema è che le cose, e l’universo intero, non sono il Nulla; ma non sono neanche l’Essere. Per questo sono esseri divenienti. Tutto l’universo è essere in divenire, ma proprio per questo non è l’Essere pieno.

Proprio per questo il divenire (e conseguentemente il tempo) è uno dei più difficili ma fondamentali problemi filosofici, infatti continuamente ritornante nella storia del pensiero, perché sembra contraddittorio: nel divenire delle cose sembra infatti che si passi dal nulla all’essere o viceversa, il che è appunto assurdo.6

Solo con Platone si affaccia la soluzione, che è trascendente: il fondamento degli esseri è al di là degli esseri, nell’Essere (trascendente). Aristotele arriva poi così a risolvere per primo il problema del divenire, risalendo fino all’Indiveniente trascendente ed eterno (Primo Motore Immobile).

Ora, che l’universo divenga è oggettivo. Anzi, la nostra stessa percezione del tempo, e la sua stessa misurazione, nonostante tutti i sistemi sempre più tecnologici per farlo, si basa sul divenire dell’universo. Quando ci diamo un appuntamento per “domani alla stessa ora”, anche senza accorgercene vogliamo dire “quando la terra avrà fatto un giro completo su se stessa” (anche se poi sappiamo dividere il globo per gradi longitudinali, e quindi per fusi orari, ed il giorno in 24 ore di 60 minuti ciascuna, a loro volta divisi in 60 secondi e quindi, cosa un tempo impossibile, per decimi, centesimi, millesimi… così che persino una gara sportiva si può vincere o perdere per queste piccolissime frazioni di tempo). E quando promettiamo di rivederci “tra un anno esatto” – anche se non abbiamo la certezza assoluta di esserci ancora, perché appunto il tempo e noi siamo contingenti – in realtà anche senza accorgercene vogliamo dire “quando la terra avrà fatto un giro completo attorno al sole”. Poi per noi addizioniamo anni e decenni, per la storia addizioniamo secoli e millenni (com’è significativo però che contiamo gli anni dall’ingresso dell’Eterno nel tempo: 2006, 2007 dalla nascita di Gesù Cristo!), per l’universo addizioniamo milioni e miliardi di anni… così che oggi ci dicono perfino l’età dell’universo stesso: 13,6 miliardi di anni, quando un Big Bang segna l’inizio di ogni energia che ancora oggi muove 200 miliardi di galassie composte da decine di miliardi di stelle. E proprio questo inizio dell’universo ci indica – poiché appunto il nulla non fa nulla – che la sorgente di tutto l’essere e divenire cosmico non è ovviamente il Nulla (che altrimenti ancora ci sarebbe, cioè non ci sarebbe nulla), ma l’Essere stesso.

Che poi questo universo sia non un Caos ma un Cosmo, cioè un tutto ordinato (il che è sempre più evidenziato proprio dal progresso scientifico) ci indica inoltre che questa sorgente eterna che è l’Essere è anche un Logos, cioè una Sapienza infinita.

Nel tempo, ma non del tempo

Noi siamo però una forma d’essere speciale. Noi siamo l’esserci (il “Dasein”, direbbe Heidegger). Cioè siamo quell’essere che sa di esserci. In noi l’essere diventa consapevolezza e libertà. Pur facendo parte del cosmo, e quindi del divenire e del tempo, siamo una forma di divenire particolare. Non siamo infatti mai pienamente noi stessi, il nostro essere. Come se fossimo dei perenni incompiuti. Siamo, ma sempre ancora dobbiamo essere, sempre ancora dobbiamo diventare quello che siamo, cioè uomini. Per questo non basta ad esempio che per la nostra crescita sia sufficiente un allevare: occorre anche un educare, appunto un “ex-ducere”, un tirare fuori sempre ancora quello che siamo e possiamo e dobbiamo essere. Anche per questo diventiamo adulti, a differenza di tutti gli altri viventi, non quando siamo biologicamente maturi e capaci di riprodurci, ma – come si diceva un tempo quando siamo capaci di distinguere il bene dal male; cioè quando prendiamo consapevolezza del senso del nostro essere. Circa un quarto della nostra esistenza (20 anni) la impieghiamo per diventare adulti. Nessun animale impiega tanto. E non è neppure detto che ci riusciamo. Potremmo rimanere degli eterni adolescenti. Ed oggi capita di frequente. Appunto perché non basta il livello biologico. Come dobbiamo prima essere educati, dobbiamo poi continuamente autoeducarci. In fondo, però, è un lavoro mai finito; e non automatico. E poiché il significato, la verità del nostro esserci è l’amore (siamo fatti “a immagine e somiglianza” di Dio-Amore), non diventiamo pienamente noi stessi se non nell’amore, se non siamo amati e non impariamo ad amare. Anche la psicologia se ne accorge. Inoltre, poiché siamo fatti per l’Amore infinito (che Dio è), facciamo prima o poi l’esperienza del limite del nostro e dell’altrui amore, per quanto grande esso sia.

Siamo dunque l’unico essere che deve sempre più diventare se stesso. E’ un lavoro su di sé (ascesi) che non è mai finito e non è automatico; può anche fallire. Un cane fa sicuramente il cane; e la rondine fa la rondine. Gli animali non sbagliano; ma non ne hanno alcun merito; è per così dire automatico. Ma che l’uomo faccia davvero l’uomo, quell’essere cioè che è, che deve essere, non è automatico, ma richiede consapevolezza e l’impegno della volontà libera. Questo dover essere, per diventare essere, deve passare attraverso la presa di coscienza, la consapevolezza, la conoscenza della verità di sé, e l’impegno in questo della propria libertà. Per questo solo conoscendo la verità diventiamo pienamente liberi, dice Gesù7, cioè pienamente noi stessi. Altrimenti la libertà diventa arbitrio, perfino capriccio; una libertà che afferma se stessa, ma ultimamente senza condurre da nessuna parte e diventa una nuova subdola forma di schiavitù.8
Per questo motivo in noi il tempo ha un duplice aspetto: biologico ed interiore. Il primo, che ci fa essere per così dire “del mondo”, ha un suo automatismo: si nasce, si cresce, si è adulti, si invecchia e si muore. A parte la soddisfazione delle necessità biologiche perché questo avvenga, non dobbiamo far altro. Inesorabilmente appunto quel bambino del Battesimo, nato da poco, se vivrà – come mi auguro – sarà un quattordicenne nel 2020, un ventiquattrenne nel 2030, un ottantenne nel 2086. Così tutti noi, fra un anno, senza differenze, avremmo un anno di più.

Il secondo aspetto, quello interiore (spirituale), fa sì che pur essendo nel mondo e quindi nel tempo, in certo qual modo fin d’ora non ci fa essere del mondo; così che il tempo perde per così dire la sua inesorabile direzionalità. Posso andare avanti, ma purtroppo posso anche andare indietro. Anche una civiltà e l’umanità intera può fare così. Se scopro e vivo la “verità” del mio essere uomo, che è poi il mio bene autentico, allora io cresco; così che l’anno prossimo io non solo abbia un anno di più, ma che io sia di più. Ma questo non è automatico, come per il crescere biologico. Non accade, se non mi impegno, se non mi decido a camminare in questa direzione. Che l’anno prossimo abbia un anno di più non dipende da me; che io sia migliore sì. Questo avviene appunto anche a livello generale: il progresso scientifico-tecnico fa sì che con ritmo sempre più accelerato abbiamo scoperte e prodotti sempre nuovi e migliori; ma questo non indica automaticamente un progresso etico (ed oggi il rischio che non sia così diventa altissimo).9

In questo senso, ci possono essere dei giovani che sono vecchi, cioè sempre più schiavi della propria bassezza morale; e ci possono essere invece degli anziani che sono davvero giovani, anzi sempre più grandi; e non è solo questione di temperamento….

Ricordo che nella prima Giornata Mondiale della Gioventù, a Roma, Giovanni Paolo II stava dicendo qualcosa di analogo mentre parlava a decine di migliaia di giovani (un numero che sembrava già un miracolo…); e poiché proprio mentre parlava in Piazza S. Pietro aveva accanto a sé Madre Teresa di Calcutta, si voltò verso di lei, come per indicare un esempio concreto e straordinario di cosa volesse dire questa “giovinezza dello spirito”, senza età. Quei giovani capirono subito… e scoppiò un significativo e commosso applauso.

Questo duplice aspetto del nostro particolare divenire sta in fondo già ad indicare che dentro la nostra biologia, la nostra materialità, si manifesta un’altra dimensione, che possiamo chiamare la nostra spiritualità (nel senso non di un “accanto” alla vita, ma appunto come “anima” della vita umana). Del resto in tutta la nostra materialità si esprime questa alterità, quest’altra più propria dimensione umana. Un sorriso è ad esempio biologicamente solo una contrazione muscolare del volto; ma è umano perché attraverso questa materialità si manifesta qualcos’altro, di invisibile ma reale. Il corpo diventa segno di qualcos’altro, dello spirito. Poiché però questo esprimersi è legato alla nostra libertà, questo segno può essere vero, sincero, autentico, come può essere falso, ipocrita. Il segno c’è, ma si perverte e si capovolge in maschera (appunto ipocrita, nel senso letterale del termine, cioè che nasconde invece di rivelare). Tutto il nostro corpo è in questa logica del “segno”. Capire questo significa cominciare a capire anche cosa sia e cosa sia chiamata ad essere la sessualità umana.10

Non si tratta di dividere materia e spirito, ma di cogliere nell’una il possibile e doveroso riflesso dell’altro. Così come una sinfonia di Beethoven, che materialmente è sì un insieme di onde meccaniche (sonore) che percuotono l’aria e fanno vibrare il timpano del mio orecchio e senza queste vibrazioni dell’aria sarebbe muta; ma nessuno direbbe mai che la musica è riducibile a questa dimensione.

Siamo dunque nella materia, ma non totalmente nella materia; così siamo appunto nel tempo, ma non siamo totalmente del tempo. Possiamo per questo poter crescere anche quando il tempo ci invecchia o poter scadere e perfino fallire anche quando la nostra età conosce ancora le piene forze della gioventù. In fondo questo indica che in noi, pur temporali, insiste già la dimensione dell’eterno.11 E non è una questione di capacità fisiche: possiamo vedere giovani sani, forti, belli, ma così vuoti da essere in fondo malati dentro; e paradossalmente possiamo incontrare dei malati nel corpo (quanti casi potrei citare) che hanno una pace interiore da essere già nell’anticamera del paradiso.12

L’uomo, diceva M. Heidegger, è un Sein-zur-tode (un essere-per-la- morte). Abbiamo visto infatti che questa è la questione decisiva per l’essere umano. Perché in un viaggio la fine è anche il fine, cioè non solo l’ultimo passo ma lo scopo ed il senso di ogni passo. La questione della morte e dell’eternità è per questo decisiva per il divenire e per il tempo umano. In realtà l’uomo, proprio perché porta in sé quest’altra e più decisiva dimensione, che in certo qual modo già lo svincola dal tempo pur manifestandosi nel tempo, non è un essere-per-la-morte, ma è un essere-per- l’Eterno; questa è la sua più propria, anche se fosse inconscia, dimensione e aspirazione.13 Per questo ha orrore della morte. Per questo intuisce un “oltre” e vi anela. E’ fatto per l’Essere, è fatto per Dio. Ed ogni passo del suo divenire può essere di crescita o di diminuzione, di cammino verso l’Essere o verso il Nulla.

Un umanesimo integrale

Che l’uomo non sia solo corpo, ma che anzi il suo “io” più profondo trascenda il corpo pur essendo nel corpo, è un’intuizione universale, presente in ogni civiltà, in ogni tempo e sotto ogni latitudine, fin dalle epoche più remote. E’ la questione dell’anima, o dello spirito. E che ci sia sempre stato sull’esistenza dell’anima, pur essendo ovviamente invisibile (!), un consenso universale è davvero stupefacente. Ci sono ovviamente modi diversi di intenderla e di comprenderla, ed altrettanti modi di cogliere o meno come essa sia legata al corpo; ma che nell’uomo il suo elemento più profondo e caratterizzante trascenda il corpo e quindi in certo qual modo anche il tempo, è infatti pressoché assodato in ogni civiltà. Ecco perché già i primi reperti della paleoantropologia notano un incredibile “culto dei morti”, assente in ogni altro animale, ma invece presente là dove possiamo dire che c’è un uomo. Possiamo poi notare che ciò che di più grande, e anche di più bello artisticamente, hanno voluto e saputo fare intere civiltà sembra proprio dedicato ai morti, oltre che a Dio. Basti pensare ai nostri Etruschi, o agli Egiziani. Tutto questo non avrebbe ovviamente senso, vista l’evidenza della corruzione dei corpi, dei cadaveri, se non ci fosse l’intuizione che il più profondo di noi stessi continua a vivere oltre il tempo, svincolato dal corpo. Se l’uomo non è solo il suo corpo, se esiste l’anima, non esiste solo la materia e non esiste solo il tempo, ma c’è un’altra dimensione, oltre la materia ed oltre il tempo. Questa è la grande intuizione dell’essere umano, che pur non ha occhi per “vedere” quest’altra dimensione, fin dall’inizio.

Quando poi nasce quella razionalità più sviluppata ed organica, specie nella civiltà greca, che è la filosofia, non tarda a manifestarsi anche una certezza razionale su questo punto fondamentale dell’antropologia, cioè della visione dell’uomo e della vita umana.

Noi razionalmente possiamo infatti scoprire realtà anche invisibili risalendo ad esse a partire dai loro effetti, perché conoscere meglio (come dice Platone) è conoscere le cause. Partendo infatti dall’esperienza sensibile e mossi dall’assoluta evidenza intellettuale che un effetto non può scaturire dal nulla ma da un essere o causa adeguata, possiamo scoprire razionalmente anche realtà invisibili. L’anima (razionale, spirituale, invisibile) dell’uomo si scopre quindi dalle sue operazioni. Atti spirituali presuppongono una causa spirituale. E ciò che caratterizza di più l’uomo, e lo distingue da tutti gli altri esseri viventi del pianeta, sono proprio queste sue capacità spirituali: la razionalità e la libertà. L’uomo ha cioè la capacità di pensare, per cui è cosciente, consapevole e può conoscere sempre più la verità; da cui l’evoluzione culturale dell’uomo, che ha fatto sì che divenisse “il signore” del pianeta, pur non essendo il più dotato fisicamente. E la capacità di volere liberamente, così che appunto solo in lui il suo destino non si attua automaticamente, ma si offre alla sua libertà. Da cui la centralità e ineliminabilità del problema etico, cioè la questione del bene e del male. Queste capacità fanno sì che l’uomo, conoscendo sé e il mondo, trascenda il mondo ed in certo qual modo anche sempre di nuovo se stesso, essendo capace di verità (cioè anche mediante concetti astratti e ragionamenti) e di bene (cioè anche oltre l’utile immediato). Possiamo dire che l’uomo è anche capace di bellezza (pensiamo all’arte, fin dai graffiti sulle pareti delle caverne dell’uomo primitivo). Ora, queste capacità – di vero, di bene, di bello, in un’unica parola potremmo dire di essere (sono infatti queste le proprietà trascendentali dell’essere) – muovono la ricerca e permettono la scoperta; ma è come un’attrazione infinita, così che non ci accontentiamo mai. Siamo cioè attirati da una Verità, da un Bene (felicità), da una Bellezza infiniti; potremmo dire dall’Essere infinito. Siamo in una parola sola “capaci” di Dio, fatti cioè per Lui, per godere di Lui.14

Questo trascendere il mondo, pur essendo nello spazio-tempo, questa originalità e superiorità dell’uomo, da cui perfino il senso di solitudine nel cosmo, è detto stupendamente fin dall’inizio della Bibbia15: l’uomo è creato da Dio “a Sua immagine e somiglianza” ed è chiamato ad essere “il signore” (dominare) del cosmo perché superiore ad esso. Inoltre dalla stessa Rivelazione biblica, e sommamente in Cristo, sappiamo con più chiarezza che quell’anelito alla Verità-Bontà-Bellezza infinite è desiderio di Dio, perché non solo siamo creati da Dio, ma siamo fatti per Lui. Cioè non solo siamo fatti a simili a Dio, ma siamo creati per diventare Dio. Pretesa questa che muove al fondo la vita dell’uomo; ma che sarebbe ovviamente vana16 (siamo finiti, come possiamo diventare infiniti?) e perfino folle se diventa orgogliosa pretesa di essere Dio contro Dio – è stato proprio questo il peccato originale17 ed è il fondo anche di ogni nostro peccato – ma che in realtà diventa possibile in Cristo (partecipando alla vita stessa di Dio fatto uomo). Anzi, è in vista di Lui, per mezzo di Lui, e di questo destino eterno che siamo stati creati.

Torniamo a questa questione dell’anima e del corpo, da cui il nostro essere nello spazio-tempo ma anche la possibilità di trascenderlo. Abbiamo già detto che dell’esistenza dell’anima, del resto così come dell’esistenza di Dio, è certa ogni civiltà, ogni cultura e religione, ed anche le più grandi elaborazioni filosofiche (almeno fino al XIX secolo, pur essendo presenti tracce di materialismo anche prima, ma di assai minore rilevanza). Ma che cosa sia davvero l’anima e come sia legata al corpo – in sostanza quale sia la vera identità dell’uomo e quindi quale sia l’umanesimo integrale – rimane in gran parte confuso, al di fuori della rivelazione biblica e soprattutto della pienezza della Rivelazione (Verità) che è Cristo.

Il problema, su cui vediamo ancora annaspare perfino la genialità di Platone, è come si possa unire materia e spirito: così la filosofia platonica fa fatica a capire come Dio possa aver creato la materia18; allo stesso modo non riesce a spiegare come l’anima immortale possa essere unita ad un corpo sicuramente mortale (da cui l’idea del corpo come “carcere”, da cui liberarsi il più presto possibile per assurgere appunto alla vera realtà).

Non lontana da questa difficoltà è anche la gran parte delle filosofie e delle religioni orientali (pur così di moda ora anche in Occidente). Difficile, al di là delle apparenze, non vedere in esse il tentativo di risolvere la questione in un sostanziale anche se non sempre palese declassamento del corpo a semplice “vestito”, addirittura provvisorio, dell’anima. Così l’ideale sembra ancora quello di dover evadere dal corpo per essere pienamente se stessi. Il mito della reincarnazione (metempsicosi), lungi dall’essere la pretesa di durare ancora oltre il tempo determinato della vita di ciascuno di noi, è invece la condanna – e così viene percepita – a dover rientrare nel tempo, addirittura in forme di vita inferiori a quella precedente, come via e possibilità di ulteriori purificazioni. In questo modo, cioè in questa possibilità dell’anima di inserirsi in più corpi, in vite precedenti o successive, oltre a ridurre appunto la concezione del corpo (materia) a puro accessorio provvisorio, non quindi essenziale alla nostra natura umana e comunque slegato dall’unicità e irripetibilità del nostro singolo essere, si determina pure una contraddittoria evanescenza della nostra stessa libertà, difficile da mantenere – nonostante il reiterato dovere di purificarsi – quando la nostra vita attuale potrebbe essere “determinata” da vite precedenti. Quando poi finalmente la nostra anima è purificata e non più costretta a reincarnarsi, secondo questa visione, il nostro divenire terreno sfocia nell’oceano del Nulla/Tutto (Nirvana), dove il nostro essere si per- derà in esso, come una goccia nell’oceano.

Insomma, in questa difficoltà a rendere ragione dell’elemento materiale della nostra natura umana (potremmo dire che sono posizioni “spiritualiste” e “idealiste”), analogamente all’opposta posizione che non riesce a cogliere la dimensione spirituale e più caratterizzante dell’umano (cioè tutte le visioni e filosofie “materialiste”), viene dunque a mancare un “umanesimo integrale”, cioè un’autentica antropologia che più nulla censuri dell’umana natura ed esistenza.

Queste intuizioni circa la verità dell’uomo sono dunque parziali e non rendono ragione della nostra unità, dell’unità del nostro essere, sia pur formato di anima e di corpo. Possono essere posizioni articolate e per certi versi perfino affascinanti, così come non mancano eroi e perfino grandi asceti e mistici tra coloro che seguono queste dottrine; ma non sono in grado di spiegare ciò che veramente noi siamo. Le intuizioni anche parziali della verità possono anche essere importanti; ed è utile il dialogo con chiunque così da capire appunto meglio certi aspetti di essa; ma quando gli aspetti parziali della verità pretendono essere la verità totale, censurando quindi necessariamente altri aspetti della realtà, allora anche queste verità diventano menzogna19, talora con terribili conseguenze sulla vicenda e perfino sulla storia umane, come la storia delle ideologie e delle loro applicazioni nella vicenda culturale, sociale e politica dell’Occidente di questi ultimi 2-3 secoli manifesta purtroppo ampiamente.

Un’antropologia autentica, una completa verità sull’uomo, e la conseguente educazione/auto-educazione che deve perseguirla, è allora decisiva per il buon esito della nostra esistenza. Le conseguenze morali e quindi esistenziali sull’esito del nostro vivere, cioè sul divenire quello che dobbiamo essere, sono decisive e ne sono una riprova. Una cattiva educazione, ad esempio, che non tenga conto della verità integrale dell’uomo, può provocare danni e successive ribellioni spesso irreparabili. Quando si riduce l’uomo a solo corpo (materialismo, edonismo) in realtà si distrugge l’uomo; e perfino l’esaltazione del corpo si capovolge spesso contraddittoriamente nella banalizzazione o addirittura perversione del corpo20. Allo stesso modo, quando l’uomo vuole fare l’angelo, come se il corpo non fosse parte integrante della propria identità, il più delle volte si ritrova poi a fare la bestia. La dissociazione tra anima e corpo di certi attuali “spiritualismi” – ora tornati di moda anche da noi dopo le ubriacature materialiste degli anni ‘60 – si risolvono infatti spesso in una messa tra parentesi della morale fisica, ad esempio quella sessuale ma non solo, come un alibi malizioso ad ogni licenza.

Il problema è che non siamo bestie, ma neppure angeli. Siamo un’unità di spirito e di corpo, che richiede né la censura di un aspetto a vantaggio dell’altro, né un accostamento estrinseco e dualista dei due elementi che ci contraddistinguono, ma di vivere un’armonia reale che quell’essere speciale che noi siamo richiede. L’autentica realizzazione dell’uomo lungo il tempo e nell’eternità dipende dunque dalla consapevolezza della piena verità su ciò che siamo, impegnando la nostra libertà in questa direzione, divenendo cioè sempre più ciò che siamo, ciò che dobbiamo essere. Il tempo in fondo ci è dato per questo.

Il senso biblico del tempo e della storia

Quanto abbiamo detto brevemente su corpo e anima era necessario, non solo per cogliere meglio cosa sia l’uomo, chi siamo noi, ma anche per chiarire meglio cosa significhi il tempo per noi, legato com’è alla questione del nostro divenire.

Fin dall’inizio (Genesi), vi abbiamo già accennato, la Bibbia ci rivela – ed è Dio stesso che ce lo rivela! – chi sia l’uomo, rendendo ragione della sua unità di corpo e di spirito e di ciò che è chiamato ad essere, in un modo sublime e pienamente rispettoso di tutto ciò che siamo, senza censure o visioni unilaterali, ma con un’armonia ed una bellezza che lasciano senza parole. Considerando il tempo di formazione orale e scritta di Genesi, che ci indica già chiaramente tutto questo, ed il grado di civiltà umanamente assai arretrato del popolo ebraico che ne è depositario rispetto ad ogni altra civiltà contemporanea, non possiamo non porci la questione di come questa consapevolezza sia stata possibile; questione che sembra davvero senza soluzione se ci ostinassimo a considerarla una sapienza solo umana e non di origine divina, se non accettassimo che qui è davvero Dio che parla, sia pur attraverso categorie umane.

Allo stesso modo, insieme alla straordinaria ed originale idea di Dio, del mondo e dell’uomo che ne emerge, la Rivelazione biblica ci manifesta progressivamente anche una straordinaria ed originale visione del tempo e della storia. Possiamo senza ombra di dubbio affermare che tutta la civiltà occidentale, ma in fondo quella di gran parte dell’umanità, ne sia stata felicemente e straordinariamente influenzata.

Pur avendo una concezione purissima della trascendenza di Dio – essendo il Creatore e Signore del “cielo e della terra”, cioè di tutte le cose – il che sorpassa appunto di millenni le concezioni di Dio non solo delle civiltà contemporanee ma in fondo anche di tutte le altre – il popolo ebraico è condotto per così dire per mano da Dio stesso a riconoscere che Egli è il Dio e Signore della storia. La stessa Rivelazione biblica non è infatti un trattato, un insieme teorico di dottrine su Dio e sull’uomo, ma è essenzialmente “storia della salvezza”. E’ il Dio che si rivela attraverso fatti e parole (avvenimenti e profeti), è il Dio che chiama l’uomo e lo conduce nello spazio-tempo21, il Dio che libera e chiama alla vera libertà (“il Dio che ci ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto e ci ha condotto verso la terra promessa”), il Dio dell’Alleanza con il suo popolo, che guida nel suo camminare nella storia.

Per questo la storia non è più il distendersi semplicemente di un divenire cosmico, dove l’uomo rimane un semplice elemento in esso travolto, e neppure di un “destino” che di fatto schiaccia e determina il cammino umano, rendendo fondamentalmente evanescente ogni pretesa umana di libertà (quel Destino, quel “Fato”, che per la stessa civiltà greca e poi romana era talmente assoluto da essere addirittura al di sopra degli dèi!), ma l’incrocio formidabile di due libertà: quella certo assoluta di Dio che chiama l’uomo, perché gli vuole bene e lo vuole salvare, e quella dell’uomo, certo creata e limitata ma reale, di fronte alla quale Dio stesso sembra arrestarsi e limitare la propria onnipotenza, una libertà che può quindi rispondere affermativamente (l’obbedienza, la fedeltà) o negativamente (il peccato, l’infedeltà). Così che il fluire della storia, che pur è nelle mani di Dio, non dipende da un destino già scritto (dove l’uomo non sarebbe che un burattino), ma è la conseguenza della libertà dell’uomo, cioè della fedeltà o meno all’Alleanza con il suo Dio.

Per l’ebreo, talora in modo perfino eccessivo22, ciò che accade non è il segno di un destino cieco (fortuna/sfortuna, come ancora molti dicono oggi, credendosi moderni mentre in realtà arretrano di millenni!), ma il frutto della nostra libertà, che decide di obbedire a Dio, di essere fedele all’Alleanza con Lui (e tutto andrà bene perché questa è la via della vita), o di disobbedire a Lui, di essere infedele (e tutto precipiterà, perché questa è la via della morte)23. Tutta la predicazione dei profeti si muove in questa direzione, talora fino al martirio (perché la verità libera, ma talora è scomoda).

Nel suo pieno sviluppo, la Rivelazione biblica manifesta poi pienamente anche il senso del tempo e della storia. Tre elementi vengono infatti a segnare definitivamente questo significato.
Il primo è la creazione. Non è solo la dipendenza di tutte le cose da Dio, che anche i vertici della elaborazione filosofica greca, non senza difficoltà, avevano raggiunto; ma è quel creare “in principio”24 che sta ad indicare in modo superlativo l’inizio di tutte le cose e della storia, così che nulla preesiste all’opera di Dio, che è l’Essere (“Colui che è”, si rivelerà poi a Mosè), che fa esistere ogni essere dal nulla, donandogli cioè gratuitamente essere, pur rimanendo Se stesso. Dunque il divenire cosmico, come poi il divenire storico dell’umanità, ha un inizio; e questo è in Dio, cioè dall’Essere, dall’Eterno. E ciò determina già lo spezzarsi della concezione “ciclica” del tempo e della storia, così ampiamente diffusa nelle civiltà antiche, quella concezione che di fatto annienta appunto la libertà dell’uomo nel divenire eternamente ritornante, per una nuova concezione “direzionale” ed irreversibile del tempo, pienamente rispettosa della libertà dell’uomo, quella concezione che diventerà di fatto patrimonio della civiltà pressoché universale25.

Il secondo elemento, decisivo, è che la storia della salvezza – ed a questo era stata preordinata – trova il suo compimento nell’Incarnazione, in Cristo vero Dio e vero uomo, cioè nell’inimmaginabile concreto irrompere dell’Eterno nel tempo e dell’Essere nel divenire, così che la natura umana e la natura divina si uniscono inscindibilmente nel Dio fatto uomo (“unione ipostatica”). Egli è “il centro del cosmo e della storia”26. In questo preciso momento del tempo e della storia, che da allora significativamente assumiamo come “anno 0” (contando gli anni da quel momento, e numerando i precedenti con un conteggio a ritroso), il senso del tempo e della storia si rivela pienamente, in tutto il suo splendore ed in tutta la sua stupefacente bellezza. Cristo è la pienezza del tempo, in cui tutto si ricapitola ed in cui tutto consiste27. Questo disegno di Dio si è compiuto nella morte e risurrezione di Cristo, per mezzo della quale siamo stati redenti, cioè liberati dal peccato e dalla morte, tornati ad essere ciò che dovevamo essere ed ancor più chiamati a partecipare alla vita di Dio, per sempre. Nella risurrezione, caso unico nella storia dell’universo e dell’umanità (e anche della storia delle religioni), la morte è vinta, lo spazio-tempo è per così dire “esploso”, così che anche la materialità del corpo di Cristo si svincola dal limite dello spazio-tempo, diventa onnipresente e contemporanea a tutto il divenire cosmico e a tutto il tempo umano, ed entra nell’Eterno. Egli infatti “vive e regna nei secoli dei secoli”.

Il terzo elemento, conseguente agli altri, è lo sfociare del tempo nell’eternità, cioè lo sbocco trascendente del tempo, della storia nella meta-storia, del divenire nell’Essere. Con Cristo, pienezza e senso del tempo, sono iniziati di fatto “gli ultimi tempi”, come il cristianesimo sa, perché infatti la Rivelazione è compiuta28, nulla di sostanzialmente nuovo dobbiamo più attenderci da Dio, perché in Cristo c’è tutto. Egli è “la Via, la Verità e la Vita”29. Questo è il tempo dello Spirito Santo, che compie in ognuno, nella Chiesa e nella storia, “ogni santificazione”30, rendendoci partecipi di Cristo e quindi del Padre, “guidandoci alla verità tutta intera”31 che è appunto Cristo. In altri termini potremmo sostanzialmente dire che il tempo e la storia vanno avanti, fino a quando Dio vorrà, affinché ognuno, riconoscendo e aderendo a ciò che è accaduto in Cristo, possa essere salvo, diventare cioè quell’essere per cui è stato creato, finché “Dio sarà tutto in tutti”32 e Cristo Signore, annientando ogni avversario, ogni direzione di morte, fino all’annientamento della morte stessa, presenterà al Padre il Regno, l’opera compiuta della Redenzione33. Nel tempo è dunque presente e cresce il Regno di Dio, ma il suo compimento e la sua pienezza saranno solo oltre il tempo. Siamo cioè in un “già e non ancora”.

Tutto viene dunque da Dio, dall’Eterno, dall’Essere, e tutto – in Cristo e per mezzo dello Spirito – ritorna a Lui. Dio si è fatto l’uomo per fare l’uomo Dio. E l’uomo può davvero diventare Dio, per partecipazione.

L’universo stesso, la creazione, attende questa piena realizzazione del progetto d’amore di Dio34. Questo è il senso esauriente del divenire cosmico, del tempo e della storia.

Il singolo uomo, ognuno di noi, per la potenza di Dio risorgerà, anche con il proprio corpo – com’è risorto Cristo – recuperando così quella unità del proprio essere che si era spezzata nella morte (dopo la quale l’anima continua a vivere mentre il corpo va in decomposizione). Come non dipende da noi che siamo stati creati, che esistiamo e che abbiamo questa struttura e questo senso del nostro essere, così non dipende da noi che tutti risorgeremo e saremo di fronte a Cristo ed al Suo giudizio. Questo accadrà, indipendentemente dal fatto che lo sappiamo o no, che ci crediamo o no, che lo vogliamo o no. Perché è nostra la libertà, ma non è nostro il disegno, il progetto per cui siamo stati liberamente ed amorevolmente creati. Dipende invece da noi che questa eternità sia beata, cioè perfettamente felice perché si è in Cristo perfettamente compiuta la nostra umanità, creaturalità e adozione a figli; oppure dannata, cioè disperata perché per sempre incompiuta, per il rifiuto volontario del senso del nostro stesso essere e del dono dell’amore di Cristo che lo compie35.

Il tempo nella coscienza moderna e post-moderna

La Rivelazione biblica, ed in particolare quella cristiana, ci manifesta dunque appieno non solo l’esistenza della trascendenza (Dio) e la nostra apertura ad essa, ma il rivelarsi stesso del Trascendente nell’immanente, cioè di Dio nella storia, fino al punto di incarnarsi in essa, assumendo la natura umana.

Questa nuova consapevolezza del rivelarsi e perfino dell’incarnarsi della Trascendenza (Assoluto, Dio) nella storia, che a sua volta tende quindi alla meta-storia (escatologia), ha generato una nuova cultura ed ha gettato le fondamenta di una civiltà che è venuta maturando nei quanto mai fecondi secoli medioevali, a tal punto che anche quando poi questa stessa civiltà (oltre che filosofia) si distacca o pretende distaccarsi da queste radici (il che comincia ad avvenire col pensiero moderno), di fatto ne vive ancora di conseguenza36.

Quando però il ramo si distacca dal tronco, i suoi fiori cominciano a seccarsi; e talora diventano perfino velenosi. Le verità parziali perdono il loro nesso armonico, la loro unità e complementarità, e per così dire impazziscono. Lo abbiamo notato, talora a prezzi elevatissimi, anche di milioni di vite umane, sia con l’assolutizzarsi dell’idea di ragione (illuminismo) come di quella di sentimento (romanticismo), della libertà (liberalismo, individualismo, capitalismo) che di quella di socialità (socialismo, comunismo); e così via, fino all’epilogo nella tragica e paradossale affermazione del nulla (nichilismo).

A proposito del tempo e della storia, il caso di Hegel è ad esempio paradigmatico. Infatti, pur mosso dal desiderio di ritrovare la perduta armonia tra pensiero filosofico e speculazione teologica (tra “sapere e fede”), egli sta all’origine della tragica moderna confusione di trascendente e immanente, fino al punto da farle coincidere, così che i suoi seguaci dissolveranno più decisamente l’una nell’altra (secondo appunto l’usuale distinzione di sinistra e destra hegeliana, o meglio nel materialismo e nell’idealismo più spietati). Il biblico rivelarsi di Dio nella storia, cioè della trascendenza nell’immanenza, pur rimanendo “altro” ed oltre la storia, viene infatti qui inteso non tanto come il manifestarsi dell’Essere/Spirito nel divenire/storia, ma come loro coincidenza. In questo modo la totalità del divenire corrisponderebbe all’Essere, la totalità dell’immanente al trascendente, l’insieme del cammino della storia con lo Spirito assoluto. Hegel si accorge della contraddizione in cui si dovrebbe arenare questo pensiero (la totalità del divenire non è l’Essere, che non diviene; inoltre, se il fine della storia fosse nella storia, che ne sarebbe della storia una volta raggiunto questo fine? E se è invece è oltre la storia allora la soluzione del tempo è metastorica, cioè appunto trascendente), ma nella visione della “dialettica” astutamente cerca di dare diritto di cittadinanza alla contraddizione, addirittura considerandola il motore stesso della storia.

In conseguenza di questa coincidenza-confusione tra trascendenza ed immanenza, sarà poi allora facile per Feuerbach considerare la trascendenza nient’altro che la proiezione dell’immanenza, così come la teologia (Dio) lo sarebbe dell’antropologia (uomo), da cui quel concetto di alienazione (l’espropriazione dell’io autentico dell’uomo), da attribuirsi a tutto ciò che è trascendenza, religione, metafisica, che sarà tanto caro al discepolo K. Marx, insieme a quello di materialismo dialettico e di lotta come motore della storia (il che ha provocato decine di milioni di vittime nel XX secolo37).

Il nichilismo compie infine l’ultimo passo, molto più radicale. Questa visione hegeliana e post-hegeliana del divenire, del tempo e della storia – osserva acutamente F. Nietzsche – non era ancora che teologia, l’ultima eresia teologica, un ulteriore residuo della visione ebraico-cristiana. E volendo più radicalmente sbarazzarsi del cristianesimo, Nietzsche giunge ad eliminare ogni direzione al divenire ed ogni finalità alla storia, né trascendente né immanente, o – se vogliamo – risolvendoli drasticamente nell’immanente, come unica realtà. Per lui il platonismo prima e il cristianesimo poi, con la loro accentuazione dell’elemento spirituale e l’invenzione della trascendenza e dell’eterno, avrebbero totalmente svilito l’immanente ed avvelenato la materia e la corporeità38. Per questo il folle esperimento di Nietzsche giunge a voler eliminare non solo ogni religione, ma anche ogni metafisica e morale, ponendosi “al di là del bene e del male”, ed infine ogni finalità storica. Ma questo esperimento è appunto contraddizione e follia, e costringe ultimamente al silenzio: come affermare il nulla? come poter affermare come “verità” il porsi al di là del vero e del falso, e come “bene” il porsi al di là del bene e del male? L’esito pare non essere appunto altro che il silenzio. E questo fu di fatto un perenne incubo per Nietzsche, fino alla sua reale follia. Per non rimanere inchiodato nell’indicibile, questo supremo e folle tentativo nietzscheano di risolvere totalmente l’essere nel divenire, il trascendente nell’immanente e l’eterno nel tempo, dovrà così approdare nella riproposizione di un mito – paradossale per chi voleva eliminare ogni metafisica, morale e religione come “invenzione” umana – quello dell’“eterno ritorno dello stesso”, ciò che alla fine ripropone come la sua più geniale intuizione, che però non ha più nulla di razionale.

Egli stesso la chiamerà “il peso più grande”39: la storia torna ad essere “circolare”; e tutto è eternamente ritornante. Così evidentemente risparisce la libertà ed in fondo l’uomo stesso! Nietzsche ammette l’esito antropologico di questo abbandono del cristianesimo e di Dio: l’uomo, da “immagine e somiglianza di Dio” torna non solo ad essere semplicemente animale (ed anche in questo Nietzsche è stato tragicamente profetico), ma perfino a ridursi come ad un sasso, come ad un “granello di sabbia nell’eterna clessidra del tempo”40.

Che poi cerchi di addolcire la tragicità di questa antropologia come “gaia scienza” e questo uomo nuovo come “oltre-uomo” (non super-uomo, come spesso è tradotto in italiano) è in fondo poco più che un abile ed accattivante trucco poetico. Al culmine quindi del più rigoroso ateismo, il Logos cede il posto al Chaos, il “mistero” all’assurdo, ed emerge come unica divinità il Destino senza senso e per di più eternamente ritornante, una dio questo sì che schiaccia ed annienta l’uomo.

Il tempo nella scienza contemporanea

Il tempo è legato dunque al divenire cosmico, così come la sua percezione è riferita ovviamente alla nostra coscienza. La nostra percezione soggettiva è certo varia e legata perfino ai nostri stati d’animo; ma la nostra misurazione del tempo, sia pur con unità di misura come sempre convenzionali, è legata a cicli cosmici oggettivi (rotazione e rivoluzione terrestre, anticamente anche alle fasi lunari). Per la misurazione di tempi più ridotti, l’uomo ha prima inventato la meridiana, così da segnare e misurare su un muro il cammino del sole in base all’ombra, poi la clessidra, quindi l’orologio, che oggi, con l’elettronica, ci sminuzza il tempo in infinitesime parti, fino a parlare di nanosecondo (1 miliardesimo di secondo).

La consapevolezza che il tempo fosse dunque legato al divenire cosmico è antica forse quanto l’uomo. Lo spazio/materia ed il tempo sono dunque legati.

Le attuali possibilità di guardare lontano (o percepire radiazioni lontanissime) ci permettono di conoscere corpi spaziali talmente lontani da doverne misurare la distanza non più in chilometri o miglia, ma in anni luce, cioè come lo spazio percorso dalla luce – che pur viaggia a 300.000 chilometri al secondo – nell’arco di un anno (in realtà sarebbero quasi 10.000 miliardi di chilometri); e conosciamo distanze di miliardi di anni luce!

Allo stesso modo sappiamo risalire indietro di miliardi di anni, scorgendo perfino la data d’inizio di tutte le galassie (partite da un punto), che appunto si aggira, secondo gli ultimi calcoli, a 13,6 miliardi di anni fa!

Questi spazi e questi tempi ci fanno davvero impressione. Confrontandoli poi con le nostre umili dimensioni ed i tempi concessi alla nostra vita, non possiamo non sentire il forte richiamo all’umiltà ed avvertire come ridicoli ogni nostro orgoglio e presunzione. Però è vero che noi, pur così piccoli e limitati (“una canna pensante”, direbbe Pascal), siamo per certi versi più grandi del cosmo intero, perché ne abbiamo coscienza. Quando poi conosciamo il Creatore ed anzi siamo chiamati in Cristo ad esserne i figli e gli amici, allora cogliamo la vertigine del dono di Dio e tutta la nostra grandezza, che supera davvero il destino dell’intero universo.

La scoperta della velocità della luce – appunto 300.000 chilometri al secondo, che è poi la velocità assoluta – e la possibilità attuale di vedere spazi così immensi, ci permettono poi una scoperta incredibile: noi possia- mo oggi vedere il passato! Fino a non molto tempo fa era ovvio che il passato è passato (così come il futuro è futuro) e non può essere presente. Fino a non molto tempo fa potevamo solo ricordarlo nella nostra memoria o fissarlo nei nostri scritti (parliamo infatti più propriamente di storia della civiltà da quando abbiamo degli scritti del tempo); poi, da oltre un secolo, con l’invenzione della fotografia, che fissa su una lastra (oggi su una registrazione digitale) un attimo fuggente, possiamo rivedere continuamente il passato; da non molti decenni abbiamo poi imparato a registrare anche movimenti e sonori. Ma il passato rimane passato. Quello però che sulla terra è impossibile, vedere il passato realmente nel presente, è possibile invece guardando lo spazio. Tutto ciò che colpisce il nostro occhio, così che vediamo tutte le cose, è di fatto luce, con tutte le sue modulazioni/rifrazioni (colori). E poiché la velocità con cui questa immagine/luce è appunto così elevata che in un secondo farebbe tre volte il giro della terra, noi abbiamo l’impressione dell’istantaneità. Lo stesso avviene per le onde radio, anche quelle del nostro telefonino, che viaggiano alla stessa velocità. Ma di fatto quando invece guardiamo lo spazio, anche questa velocità assoluta viene ad indicare comunque dei tempi di percorrenza, per cui quello che vediamo o captiamo (la luce che proviene da quel corpo, propria come quella del sole e delle altre stelle o riflessa come quella della luna e di altri satelliti e pianeti) non è più quello che c’è ora, ma quello che c’era e che giunge a noi per così dire con un certo ritardo. Così che la Luna che vediamo, in realtà è la Luna di un secondo fa; il Sole che vediamo, in realtà è il Sole di 8 minuti fa; la stella più vicina a noi (Alpha Centauro) che vediamo, è in realtà quella di 4,5 anni fa; la galassia più vicina (Andromeda Nebula) che vediamo è in realtà quella di 2 milioni e 200.000 anni fa. E percepiamo ormai per così dire il bordo del nostro universo (il limite progressivo di quella sfera in espansione che è formata dalle galassie in fuga), ma in realtà esso è quello di più di 10 miliardi di anni fa. Insomma, guardando lo spazio non solo vediamo il passato, ma ci avviciniamo a vedere addirittura l’inizio stesso dello spazio e del tempo!

Quando poi Einstein scopre la relatività e quell’equazione (e = mc2) che lega massa, energia e velocità della luce, allora sappiamo qualcosa di imprevedibile sul rapporto tra materia e luce e sullo spazio-tempo: più aumenta la velocità e più si stringe il tempo (non il tempo di percorrenza, questo lo sappiamo tutti, ma proprio il tempo), così che se giungessimo alla velocità assoluta (della luce) il tempo sparirebbe e tutto diventerebbe contemporaneo41.

Una questione decisiva

Abbiamo osservato come Nietzsche, volendo opporsi radicalmente a Dio ed in particolare al cristianesimo, debba approdare ad una soluzione mitica e disumana del tempo, che era in fondo quella pre-cristiana: l’eterno ritorno dello stesso, cioè la storia circolare.

Volendo affermare il divenire al posto dell’essere e risolvere tutto il divenire nell’immanenza, sa essere più preciso e radicale del presocratico Eraclito: non è più vero che “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”, perché cioè tutto scorre, ma anzi lo si dovrà fare infinite volte e sempre lo stesso, perché tutto ritorna. Sostituendo il Logos col Chaos, ritorna il dio-destino, completamente casuale, cieco, dove l’uomo di fatto sparisce, completamente dissolto nel tutto eternamente ritornante. Pare proprio questo l’epilogo del progressivo allontanarsi dal cristianesimo.

Certo non tutti si rendono conto che sarà questo il prezzo da pagare alla “morte di Dio”, ci vorranno due secoli – avvertiva ancora Nietzsche più di un secolo fa – perché ci si renda conto di questo. Rimarranno infatti in un primo tempo dei surrogati della visione ebraico-cristiana del tempo, della storia e della vicenda umana (abbiamo visto ad esempio Hegel, Marx, ma possiamo pensare anche a tanti pseudo-ideali che ora sorgono e tramontano qua e là, per brevi spazi di tempo). Ma la morte dell’uomo, almeno come lo si è inteso fino ad oggi, sarà l’esito della morte di Dio, annuncia appunto Nietzsche, al di sotto dei suoi accattivanti annunci della completa liberazione dalla metafisica, dalla morale e dalla religione.

Infatti sono ancora pochi coloro che se ne rendono conto. Ma lo stile generale di vita sembra proprio progressivamente scivolare già in questo nichilismo.

L’uomo contemporaneo sembra orgoglioso di non sentirsi più “immagine di Dio”, ma semplice prodotto casuale dell’evoluzione; anzi, gli animali sono diventati i suoi migliori amici e li sente perfino con una dignità maggiore di quella propria (infatti spesso li difende e li nutre più di quel che non faccia per gli uomini, specie se non ancora nati o poveri o anziani e sofferenti).

Non ha più Dio, ma divinizza la Natura, la Terra (Gaia), nelle nuove ideologie ecologiste ed animaliste (che tanto amano la natura e gli animali quanto odiano l’uomo, “cancro del pianeta”), che pensano magari di essere progressiste ma in realtà rasentano inconsapevolmente il remoto animismo ed il più sofisticato panteismo. Non crede più nella Provvidenza, ma nel Caso, nel destino, negli astri, nella fortuna/sfortuna, nelle energie positive/negative. Non vuole la religione ma poi ricade nella superstizione. Non vuole la distinzione oggettiva del bene e del male, ma poi crede nel “porta bene, porta male”. Vive nel materialismo ma poi anela ad uno spiritualismo vuoto (“New Age”, “Next Age”, filosofie orientali), dove contempla di fatto solo se stesso e ricerca solo un “benessere” che è ben lontano dall’essere-bene e dal senso vero della vita.

Come abbiamo già osservato, l’uomo contemporaneo rischia di vivere normalmente da alienato, sia nelle occupazioni feriali che nel tempo libero; sempre lontano da sé, estroflesso, indaffarato, sopraffatto dal tempo, che pur inesorabilmente gli scorre nelle vene e lo invecchia, nonostante tutti gli sforzi cosmetici e di palestra.

Le nuove generazioni poi, nonostante gli anni di studi, sembrano senza passato, senza storia, senza tradizione. Molti universitari, anche qui a Roma, conoscono tutte le discoteche e i principali negozi di abbigliamento, ma anche dopo anni quasi nessun monumento, museo, chiesa… eppure siamo nella Città eterna, in quello che fu il centro del mondo e rimane il centro del cristianesimo. Si dice che ogni nuova generazione, ogni uomo è come un nano sulle spalle di un gigante; lo stesso studiare dovrebbe servire anche per questo; ma sembriamo ora scesi dal gigante; e siamo rimasti nani. Ogni rivoluzione post-illuminista si è gloriata di recidere queste radici, di far piazza pulita del passato e della tradizione (appunto da “tradere”, tramandare); anche quella solo fisicamente non violenta in atto in Europa riguardo alle negate anche se evidenti radici cristiane rientra in questa logica.

Ma l’uomo senza passato si condanna sempre a non avere futuro. Infatti sembriamo dissolti nel presente, che appunto pur fugge. Specie in Occidente, sembra si affermi sempre più una generazione “senza padri”; e significativamente “senza figli”! Perfino il giovane, che per sé dovrebbe essere anagraficamente e psicologicamente proteso al futuro, al diventare uomo/donna, sembra oggi sempre più dissolto nel presente: qualche amore, ma sempre provvisorio e senza progetti; qualche lavoretto per guadagnare qualcosa da spendere per comprare qualcosa o per le prossime vacanze. Un cammino che si dissolve nel presente non è però più un cammino ma una stasi.

E questo genera una sorta di asfissia, come se qualcuno ci stringesse il collo; da cui le anoressie, gli scoppi d’ira, le depressioni, il sostanziale confessato o inconfessato disprezzo della vita, nonostante il titanico sforzo di godersela, le fughe alienanti in ogni forma di droga (e non solo quelle da fumare, sniffare, ingoiare o iniettarsi)42.

Insomma, ancora una volta – ma la storia per sé è antica e risale addirittura ad Adamo – tolto il paradiso vero l’uomo si crea “paradisi artificiali” (così infatti all’inizio si chiamavano le droghe); ma il dramma è che essi si rivelano prima o poi come “inferni”.

Il paradiso, la vita vera, ci è dato in Cristo, esso comincia qua, nel tempo, per poi svelarsi pienamente nell’eternità.

“Io sono la Via, la Verità e la Vita”, dice Gesù. Abbiamo osservato: in Lui, Dio-fatto-uomo, l’Eterno è entrato nel tempo ed il nostro tempo è entrato nell’eterno. In Lui, l’uomo, creato “ad immagine” di Dio e fatto per Lui, viene riportato alla santità (verità) della sua prima origine; anzi, è innalzato all’adozione filiale, ad essere figlio nel Figlio, e chiamato a diventare pienamente se stesso nell’Essere di Dio, nel Tu/Noi della SS.ma Trinità. Questa volta non è più un perdersi per perdersi (come nelle religioni orientali e in Nietzsche), ma davvero un evangelico43 perdersi per ritrovarsi, per essere finalmente se stessi.

In Lui io non sono più un essere anonimo, sorto casualmente e vivente in una frazione così infinitesimale dello spazio e del tempo cosmici, così che non c’ero poco fa e non ci sarò più tra poco, e dopo di me per l’universo e per l’umanità sarà come se non fossi mai esistito. Io sono pensato, voluto, creato, amato da Dio stesso, il Creatore e Signore di tutto lo spazio e di tutto il tempo, gratuitamente ed amorevolmente chiamato non solo all’esistenza, ma alla partecipazione alla Sua stessa vita, per sempre!

Il cristianesimo non è una nuova teoria, dottrina, filosofia e religione, ma anzitutto una Persona, l’avvenimento di Cristo44.

E’ una Presenza45. Fino a quando lo “vedremo a faccia a faccia”46, “così come Egli è”47 e godremo eternamente della Verità-Bonta-Bellezza infinite che Dio è. Non è dunque un ideale, tanto meno un’ideologia. E’ una Persona: Cristo. E proprio in quanto risorto è presente ovunque e sempre, contemporaneo ad ogni tempo, perché ogni tempo ed ogni uomo possa entrare in Lui.

Che sia una presenza, concreta, lo manifesta particolarmente l’Eucaristia, il Suo dono più grande, perché è Lui stesso e il dono di Se stesso per noi, per sempre, finché tornerà. La Sua presenza, anche fisica, di Risorto nell’Eucaristia è in fondo il fatto più straordinario che possa avvenire in ogni tempo e luogo. Per questo è ciò che di più grande ha la Chiesa e ciò che di più grande essa può fare e donare. In ogni celebrazione dell’Eucaristia, che significativamente chiamiamo “memoriale”, cioè un fatto passato che non solo viene ricordato ma che si rende presente, avviene infatti che la morte e risurrezione di Cristo, causa della nostra salvezza, pur essendo storicamente passata, si rende presente e addirittura anticipa in certo qual modo il futuro (“nell’attesa della tua venuta”, del banchetto celeste, del paradiso, cioè della piena e definitiva comunione con Lui). L’irreversibilità e direzionalità del tempo praticamente si annullano: e tutti diventiamo per così dire contemporanei a quell’avvenimento, perché quell’avvenimento è appunto storico e meta-storico, e dona il senso vero della nostra vita48.

La risurrezione, avevamo osservato, fa uscire la materia stessa del corpo di Gesù dallo spazio-tempo e diventa presenza ovunque e sempre, ma specialmente in questo modo supremo e fisico che Lui stesso ha inventato e anticipato nell’ultima cena. Ricevendo l’Eucaristia, comunicando cioè addirittura fisicamente con Lui (è significativa la scelta dell’elemento del pane e del vino, cioè del nutrimento e della bevanda che diventano noi), noi diventiamo ciò che riceviamo, siamo cioè divinizzati, fin d’ora49. Altro che animali o granelli di sabbia nell’eterna clessidra del tempo!

La cosa più bella ma anche più seria ed urgente del tempo è allora questa: che ci volgiamo a Lui, che il nostro tempo entri in Lui, che sia speso per Lui50. Possiamo dire: la nostra conversione, il nostro volgerci sempre più a Cristo, il farci liberare dal male (questo continuo non essere l’essere che dobbiamo essere) ed il partecipare sempre più alla vita stessa del Padre, che ci è data fin d’ora in Cristo e per opera dello Spirito, nella Chiesa.

Questa è la cosa più seria, più bella ed urgente del tempo che abbiamo a disposizione, la vera grande unica occasione da non perdere, il più intelligente e vero “carpe diem”! Guadagnare il mondo intero sarebbe nulla se perdessimo questo51. Perché questo è il vero tesoro52, il senso vero della nostra vita. Ed è questione decisiva, che cambia davvero l’orientamento a tutte le cose e a tutto il nostro tempo, perché là dove c’è il nostro tesoro c’è anche il nostro cuore53.
La vera disgrazia (che letteralmente è proprio non avere “la grazia”!) non è ciò che di spiacevole ci può capitare, ma il perdere questa occasione, come dice con forza Gesù54. Perché i problemi della vita sono tanti, e Gesù ci aiuta spesso a risolverli, ma questo del senso vero della nostra vita è il problema, e solo Lui può risolverlo.

Questa è la questione più decisiva del tempo che abbiamo a disposizione, quella che ha conseguenze determinanti non solo per la nostra vita qui ma per tutta l’eternità. L’alternativa è l’inferno, l’incompiutezza eterna e disperata. Ed è anche la questione più urgente, perché non sappiamo neanche quanto tempo abbiamo55.

Non lasciamoci allora ingannare da falsi ideali, da falsi annunci di felicità, e neanche da falsi amici. Cerchiamo di capire e muoviamoci, senza esitare.

Facciamo un ultimo esempio, per capire meglio l’urgenza della questione.

Il “Titanic” sta navigando fiero nei mari del nord, orgoglioso e dicono inaffondabile. Nei saloni c’è festa, mondanità, balli. Anche tu sei lì a ballare, spensierato. Un amico si accorge però che si sta andando verso un iceberg gigantesco, che la nave non potrà evitarlo, che sarà la catastrofe e naufragherà. Siamo sicuri che farà naufragio, è evidente (non si esce vivi da questa vita, il nostro tempo è limitato). Quell’amico sa però ancora, in modo misterioso ma sicurissimo, che c’è una sicura scialuppa di salvataggio dove poter salire e salvarsi, una barca che resisterà ad ogni tempesta e che ci potrà portare verso un’isola dove regna la felicità perfetta. Corre per questo a dirtelo, te lo urla nella sala da ballo, mentre tu sei lì, senza pensieri, a divertirti. Il suo è un grido scomodo, potrebbe perfino infastidirti, perché ti scuote, interrompe il tuo ballo, ti costringe a pensare, a deciderti, a muoverti. Per questo un altro amico cerca di convincerti a non pensare a queste cose, a continuare ad essere spensierato, a godere dell’attimo fuggente. Sembra così bello e accattivante quello che ti dice; ma è un inganno. Si sente infine il colpo terribile, fatale. Non c’è più tempo. L’orgogliosa nave si inclina ed affonda.

Quale dei due amici ti vuole più bene? Qual è la scelta più intelligente e più giusta da fare?


  1. Si veda in proposito quel sempre affascinante best-seller di V. Messori Scommessa sulla morte (SEI, 1982 e segg.). ↩︎
  2. Il celebre Carl Gustav Jung, uno dei padri della psicanalisi, diceva: “un uomo che non si ponga il problema della morte e non ne avverta il dramma, ha urgente bisogno di essere curato”. ↩︎
  3. La tentazione di ridurre il bisogno dell’uomo al materiale, dice il Vangelo fin dall’inizio, è opera del demonio. Gesù risponde che l’uomo ha anzitutto bisogno di verità, di “ciò che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,3-4). ↩︎
  4. “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”, recita il Salmo 89. ↩︎
  5. Si dice infatti che ai Presocratici manca l’analogia dell’essere, per cui non possono capire in che senso le cose, pur essendo essere, non sono l’Essere . ↩︎
  6. L’assurdo non può esistere perché è essere e non-essere contemporaneamente e sotto lo stesso aspetto (da cui l’impossibilità di affermare e negare contemporaneamente la stessa cosa, cioè il principio di non-contraddizione, fondamento di ogni pensiero). Che il nulla non sia nulla e non possa fare nulla è il fondamento non solo del buon senso, ma anche di ogni ragionamento, sia filosofico che scientifico. Su questo si basa infatti l’idea di causa: ogni effetto ha una causa proporzionata proprio perché non può divenire dal nulla. ↩︎
  7. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32). ↩︎
  8. Gesù, rispondendo all’obiezione di chi si sente già libero, continua infatti dicendo: “chiunque commette il peccato è schiavo del peccato… Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8,34.36). ↩︎
  9. E’ più che mai l’ora – osservano alcuni scienziati (v. ad es. i Congressi di Erice), facendo in qualche modo eco ai numerosi ed autorevoli richiami della Chiesa – che la scienza faccia alleanza con la coscienza; perché altrimenti proprio le grandi potenzialità della scienza e della tecnica possono volgersi contro l’uomo, come purtroppo abbiamo già visto nel secolo scorso e di nuovo vediamo. ↩︎
  10. Stupendo, anche in questo senso, quanto dice il S. Padre Benedetto XVI nei primi capitoli della sua prima Enciclica Deus caritas est. ↩︎
  11. Del resto infatti, il paradiso e l’inferno cominciano qua; l’eternità beata o dannata cresce già nel tempo. Lo possiamo vedere e sperimentare tutti. ↩︎
  12. Ad esempio nel commovente libro Cammini di liberazione. Storie di giovani di Luciano Silveri (BS, 2001) troviamo storie autentiche di giovani che, nonostante talora colpiti da malattie incurabili e prossimi alla morte, hanno scoperto la vita e la gioia vera, proprio per l’incontro con Cristo, con la fede cristiana comunicata loro dall’autore stesso del libro. ↩︎
  13. E’ nota l’espressione di S. Agostino: “Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei Tu, Signore, che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per Te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te” (Le Confessioni, 1,1,1). ↩︎
  14. E’ significativo in tal senso che il Catechismo della Chiesa Cattolica, ed il relativo Compendio, dedichino e titolino il primo capitolo proprio “L’uomo è capace di Dio”. ↩︎
  15. Cfr. Gen 1,26-28 e 2,7.18-20. Che l’uomo venga qui definito “immagine e somiglianza di Dio” è tanto più sorprendente in quanto la religione ebraica, consapevole della trascendenza e pura spiritualità di Dio, ha l’assoluta proibizione di farsi immagini di Dio; quindi l’uomo assomiglia a Dio in quanto ha uno spirito, che trascende la materia ed è “capace” di Lui. ↩︎
  16. E’ significativo che anche un filosofo ateo contemporaneo come J. P. Sartre, ad esempio, riconosca che “l’uomo è fondamentalmente desiderio di essere Dio”; ma se Dio non c’è – continua – allora “l’uomo è una passione inutile” [L’être et le néant, Paris 1960, p. 708]. Se così fosse, se a questa fame infinita dell’uomo non corrispondesse niente, non ci fosse risposta, l’uomo sarebbe tra l’altro la prima assurdità cosmica, perché mai nella natura si registra l’esistenza di un bisogno fondamentale “vano”, cioè senza risposta (se c’è la sete è perché da qualche parte c’è l’acqua). ↩︎
  17. Cfr. Gen 3. ↩︎
  18. Platone reintroduce infatti in proposito un mito, quello del Demiurgo, perché in realtà non riesce a spiegare la materia e il divenire del tempo, ridotti a semplice “ombra” della vera realtà, che è invece quella trascendente. ↩︎
  19. Questo assolutizzare una parte della verità è il limite di ogni “ideologia”. Notiamo però che anche l’eresia è etimologicamente la “scelta” di una verità parziale, a danno della verità totale. ↩︎
  20. Si veda in proposito ancora l’acuta analisi del Papa Benedetto XVI, a proposito di “eros” ed “agape”, nella prima parte dell’Enciclica Deus caritas est. ↩︎
  21. E’ il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Es 3,6; Mt 22,32). ↩︎
  22. Si veda ad esempio la correzione compiuta da Gesù stesso (cfr. Lc 13,1-5). ↩︎
  23. Cfr. ad es. Dt 30,15.19; Ger 21,8. ↩︎
  24. “In principio” è la prima parola della Bibbia (Gen 1,1), ma è significativamente anche la prima parola del Vangelo di Giovanni (Gv 1,1), come indice della nuova creazione in Cristo. ↩︎
  25. Come ad esempio spiega il filosofo russo N. Berdjaev in Il senso della storia (MI, 1977). ↩︎
  26. Giovanni Paolo II, nella sua prima Enciclica Redemptor hominis, n. 1 (incipit). ↩︎
  27. “Poiché (il Padre) ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose” (Ef 1,9-10). Cristo è “prima di tutte le cose (poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose) e tutte sussistono in lui” (Col 1,16-17). ↩︎
  28. “Tutto è compiuto”, è significativamente l’ultima parola di Gesù in croce (Gv 19,30). ↩︎
  29. Gv 14,6 . ↩︎
  30. 1Pt 1,2; cfr. anche la Preghiera eucaristica IV. ↩︎
  31. Gv 16,13. ↩︎
  32. 1Cor 15,28. ↩︎
  33. Cfr. 1Cor 15,20-26. ↩︎
  34. Cfr. Rm 8, 19-23. ↩︎
  35. Come dice ancora S. Agostino: “Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te” (Sermo CLXIX, 13) ↩︎
  36. Come dimostrano i magistrali studi del filosofo francese E. Gilson, in Lo spirito della filosofia medioevale (BS, 1983). ↩︎
  37. Il paradiso e l’inferno cominciano qua. Ma quando vogliamo fare il paradiso in terra, normalmen- te costruiamo degli inferni. Questo è “il dramma dell’umanesimo ateo”, coma la storia del XX secolo ha ampiamente e tragicamente dimostrato. Si veda in proposito il celebre testo H. de Lubac Il dramma dell’umanesimo ateo (MI, 1992). ↩︎
  38. Si veda in proposito la citazione (nota 1) e la sapiente correzione di Nietzsche, all’inizio dell’Enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI (n. 3 e segg.). ↩︎
  39. F. Nietzsche, La gaia scienza, 341. ↩︎
  40. Ancora F. Nietzsche, La gaia scienza, 341 e Così parlò Zarathustra, Il convalescente. Mi permetto indicare qui il mio studio: A. Cecchini, Oltre il Nulla (Città Nuova, 2004). ↩︎
  41. Penso tra me alla risurrezione di Gesù, a quell’evento unico che ha cambiato il senso della vita umana e della storia. In quello spazio-tempo (Gerusalemme, quasi 2000 anni fa), per la potenza di Dio, Signore del cosmo e della storia, la materia del corpo stesso di Cristo è diventata luce (non sarà proprio questa la causa di quella misteriosa impronta di luce – una sorta di raggi gamma, ci dicono gli studiosi – che ha segnato la Sindone di Torino per pochi centesimi di secondo, lasciando così una traccia pari ad un perfetto negativo fotografico, senza bruciarla?) ed è uscita dallo spazio-tempo, così da non poter essere trattenuta (cfr. Gv 20,17) e pur essendo se stessa e così concreta da essere toccabile (Gv 20,27) e da poter ancora mangiare (Lc 24,42) di fatto è svincolata dallo spazio-tempo, così da non essere immediatamente riconoscibile e presentandosi con sembianze ed età diverse (a S. Antonio di Padova si mostrerà ad esempio addirittura bambino), diventa contemporanea ad ogni tempo e presente in ogni luogo. Cioè, in quel sepolcro di Gerusalemme, rimasto incredibilmente vuoto dopo 48 ore, nonostante le guardie, lo spazio-tempo è per così dire appunto esploso nel meta/spazio-tempo. Così come avverrà per ciascuno di noi alla fine del tempo. ↩︎
  42. Diceva A. Frossard, uno dei più autorevoli scrittori francesi degli scorsi decenni, educato e cresciuto nell’ateismo del padre – fondatore e primo segretario del Partito Comunista Francese – e poi convertitosi al cattolicesimo, nel suo simpaticissimo libretto 35 prove che il diavolo esiste (TO, 1998): “la droga è un buon mezzo per sfuggire dal mondo per la tangente, senza andare in nessun posto… Seguendo i miei (del diavolo) consigli, ne usate con tutta l’intemperanza desiderabile… La religione è l’oppio dei popoli, diceva Karl Marx. Altri tempi: adesso bisogna rovesciare i termini: l’oppio è diventato la religione dei popoli”. ↩︎
  43. Cfr. Mt 10,39; 17,24-26; Mc 8,34-37; Lc 9,23-26; 17,33; Gv 12,25. ↩︎
  44. Come ci ha ricordato stupendamente il Papa Benedetto XVI ancora all’inizio dell’Enciclica Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” n. 1. ↩︎
  45. “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). ↩︎
  46. 1Cor 13,12. ↩︎
  47. 1Gv 3,2. ↩︎
  48. Significativa è stata l’espressione “fissione nucleare”, usata in proposito dal Papa Benedetto XVI durante la XX GMG di Colonia (20.08.2005). ↩︎
  49. “Io sono il pane della vita… se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò e la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,48.51). ↩︎
  50. “Colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6,57). ↩︎
  51. Cfr. Mt. 16,26. ↩︎
  52. Cfr. Mt 13,44. ↩︎
  53. Cfr. Lc 12,34. ↩︎
  54. Cfr. Lc 13,1-5. ↩︎
  55. “Non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13 – cfr. anche Mt 24,32-44; Lc 12,35-40). ↩︎