L'Inquisizione, a differenza del mito creato in dalla cultura anticattolica, non è stata un sistema di violenza per obbligare alla fede

L’Inquisizione


Nell’immaginario collettivo, anche di persone colte, l’Inquisizione sarebbe stata per secoli un terrificante sistema di violenza e di spionaggio messo in atto dalla Chiesa per imporsi nella società e obbligare alla fede. Avrebbe cioè creato per secoli un clima di paura, di terrore, mettendo a morte (condannando “al rogo”) un numero impressionante di persone (il laicismo parla persino di milioni di morti oltre a violenze, torture e ciò che di più raccapricciante si possa immaginare).

Coloro che sono ostili alla Chiesa ne fanno un ricorrente cavallo di battaglia per dimostrare come la Chiesa sia falsa, ipocrita, violenta, causa di tutti i mali, avrebbe creato nel medioevo e per secoli un agghiacciante sistema di potere, per imporsi nella società e nel mondo, persino per perpetrare e coprire inconfessabili delitti. Insomma, quanto basta per desiderare di starsene lontani e far di tutto perché la Chiesa cessi di esistere.

Persino i cristiani, condizionati da questi pregiudizi e falsità storiche, continuamente divulgati – persino con romanzi e film, ben lontani dalla storia vera – si vergognano di questo presunto terribile passato; e giungono a prendere le distanze dalla Chiesa stessa! Si dice tra l’altro che oggi la Chiesa stessa (e il Papa) ne avrebbe chiesto un tardivo perdono alla società e al mondo.

Come sempre, lo scopo recondito è quello di cancellare, persino nei cristiani, la consapevolezza che il cristianesimo è vero, che la Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, è abitata e guidata dallo Spirito Santo, è lo strumento attraverso cui Gesù salva le anime, rendendo gli uomini partecipi di Sé, per sempre.

Ebbene, anche questo è un mito, una “leggenda nera” creata in gran parte dalla cultura anticattolica (prima protestante, illuminista, massonica, poi comunista e infine laicista).

La storia vera è un’altra. Vediamola sinteticamente.


Indice


1) Un “mito” anticattolico


1.1 – Come si è costruita la “leggenda nera” sull’Inquisizione

Il “mito” dell’Inquisizione prese forma già nel sec. XVI nelle regioni europee passate alla Riforma protestante, in chiave ovviamente anticattolica.

Nel 1691 si costruì e si impose una protestante Historia Inquisitionis, poi tradotta e pubblicata a Londra nel 1731, utilizzata per suscitare l’odio contro Roma al tempo della seconda ribellione scozzese.

Già questo è paradossale, poiché in realtà fu proprio la Riforma protestante a porre in atto una Inquisizione assai spietata e violenta, come vedremo.

Il mito dell’Inquisizione si ingigantì poi nell’Illuminismo del XVIII secolo, con la divulgazione di appositi libelli anticattolici (ad esempio quelli di Voltaire o a lui ispirati), atti a provocare l’odio contro la Chiesa Cattolica (al grido di écrasez l’Infâme!), così da fare dell’Inquisizione il simbolo stesso dell’oscurantismo, dell’intolleranza, della violenza e dell’ignoranza clericale.

Così nacque e si divulgò una “leggenda nera”, purtroppo ancor oggi creduta, che di storico ha in realtà assai poco: fatti ingigantiti all’inverosimile (fino a parlare di milioni di morti, cifra incredibile anche solo in rapporto al totale della popolazione di allora), vere e proprie menzogne storiche, racconti di violenze, intimidazioni, torture (si sono creati in proposito “Musei dell’orrore”, talora tuttora esistenti ma storicamente falsi), roghi ovunque, il tutto con l’ausilio di romanzi, immagini, poi film, creduti dai più come vera storia.

E ciò è ancor più paradossale, poiché in realtà sono state proprio le ideologie e le rivoluzioni nate dalla “cultura illuminista” (dalla rivoluzione francese a quella bolscevica, dall’ideologia nazional-socialista a quella comunista), a provocare invece realmente violenze inaudite, centinaia di  milioni di morti, oltre ad essere state causa di due guerre mondiali!

Il clima culturale emergente nel XIX secolo (positivista, ateo o protestante e soprattutto massonico) amplificò tali menzogne, creando pure casi paradigmatici, ancor oggi creduti come storici (come “il caso Galileo”, creato quindi dopo due secoli e contro la realtà dei fatti).

Gli illuministi francesi fecero del “caso Galileo” un proprio cavallo di battaglia anticattolico, come paradigma dell’oscurantismo cattolico che si sarebbe sempre opposto alla ragione e al libero pensiero.

Voltaire, nel suo Dizionario filosofico, scrisse: “Ogni inquisitore dovrebbe arrossire fino in fondo all’anima solo alla vista di una sfera di Copernico”.

Infine le menzogne sull’Inquisizione giunsero da quella letteratura massonica – sorta nel sec. XIX e unitasi poi nel XX secolo alla storiografia marxista, nel comune intento di denigrare la Chiesa Cattolica – che esercita ancor oggi una fortissima pressione culturale ed economica e che oltre ad una falsa e distorta storiografia, diffonde i propri pregiudizi anticattolici pure attraverso romanzi e film di grande divulgazione e successo (come il celebre romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco e il relativo film di Annaud, per non parlare dei soliti romanzi alla Dan Brown e film conseguenti).

Già nell’ ‘800 fa scuola ad esempio un libro polemico e anticattolico sull’Inquisizione dell’americano Henry C. Lea (History of Inquisition), cui si rifanno gli altrettanto antistorici scritti di C. Invernizzi o di Bagent e Leight (The Inquisition).

“La leggenda nera sull’Inquisizione è nata nell’Inghilterra elisabettiana, con il favore della pubblicistica protestante e massonica, ed ha saputo imporsi in tutto il mondo occidentale; ed anche nei Paesi a maggioranza cattolica ha incontrato la propaganda anticlericale” (così lo storico Franco Cardini).

Sul “caso Galileo” il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, marxista e anticlericale, creò l’opera teatrale Galileo, totalmente antistorica (oggi, alla luce degli Atti dell’autentico Processo del 1633, lo sappiamo ancor meglio), che divenne un persistente cavallo di battaglia della lotta culturale anticattolica delle sinistre, anche in Italia, al fine di mantenere e divulgare le solite menzogne contro la Chiesa Cattolica.

1.2 – L’accessibilità degli autentici Verbali dei Processi dell’Inquisizione e i nuovi studi storici

Poiché i Processi indetti dall’Inquisizione Cattolica erano sempre diligentemente verbalizzati e tali Verbali venivano accuratamente conservati negli Archivi storici – anche se molti di essi sono stati trafugati e spesso distrutti proprio dalla furia anticattolica delle ideologie moderne (già con Napoleone) – e il fatto che oggi tali Archivi siano resi accessibili agli studiosi di tutto il mondo, permette di analizzare i reali fatti storici mediante una seria ricerca critica e scientifica, scevra da precomprensioni ideologiche, e di poter smantellare finalmente questa “leggenda nera” costruita lungo la storia dagli anticattolici e ancor oggi continuamente divulgata. Così infatti, più recenti e seri studi storici hanno abbandonato quell’immagine caricaturale dell’Inquisizione, per tanti secoli divulgata e purtroppo ancora creduta come vera da troppi (persino cattolici).

Fecero già scalpore gli accuratissimi studi dell’autorevolissimo storico Leo Moulin, il quale da agnostico si era messo alla ricerca di queste scottanti questioni della storia della Chiesa, dedicandovi una vita di studi; alla fine dovette ammettere di dover capovolgere quelli che erano stati i suoi pregiudizi … addirittura si convertì alla Chiesa Cattolica (si veda in italiano: L. Moulin, L’Inquisizione sotto inquisizione, Icaro Cagliari 1983).

Oltre a Franco Cardini, noto esperto di medievalistica, in Italia abbiamo studi storicamente più seri, come quelli di Adriano Prosperi (uno dei decani della ricerca storica, non sospettabile di affinità con la Chiesa in quanto marxista-gramsciano), G. Musca (pur da “laico”), Silvana Seidel Menchi, Luigi Firpo, Gabriella Zarri, Gigliola Fragnito, Romano Canosa, Carlo Ginzburg, Bennassar, Merlo.

“Già l’italoamericano ed ebreo John Tedeschi ridimensionò molto la ‘leggenda nera’ che per troppo tempo (anche per colpa di libri ottocenteschi, come quelli diffusissimi di Lea) ha avvolto l’Inquisizione romana: ne diede prova il suo autorevole studio Il giudice e l’eretico, (tradotto in italiano nel 2003, continuato poi da A. J. Schutte, non tutte le opere della quale sono purtroppo tradotte nella nostra lingua)” (F. Cardini).

Anche il recente studio di Ch. F. Black, italianista e cinquecentista dell’Università di Glasgow (Christopher F. Black, Storia dell’Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura, Carocci, 2013), oltre ad essere un saggio monografico documentato ma sintetico (che peraltro mancava), sfata il mito anticattolico dell’Inquisizione, sottolineando peraltro come in Italia, oltre all’Inquisizione Romana, in molti territori operasse (tra il ‘400 e il ‘600) anche l’Inquisizione spagnola.

Tali studi cercano anzitutto di collocare la vicenda nell’ottica anche giuridica del tempo e sono d’accordo nel sostenere che, se come tutti gli Istituti giudiziari del mondo anche l’Inquisizione commise senza dubbio errori e delitti, i suoi processi furono però condotti con equità e rigore. Anzi, proprio l’Inquisitore era il garante dell’equità del processo (non sono infatti rari i casi di assoluzione degli imputati in seguito a una presa di posizione dell’Inquisitore). “La storiografia moderna riconosce l’equità, la prudenza ed il rispetto delle regole di quei tribunali” (Messori). Secondo lo storico Paolo Prodi, l’Inquisizione starebbe addirittura alla base della strutturazione del processo moderno.

“Ne emerge “un’istituzione dotata di regole eque e di procedure non arbitrarie, di una corte giudiziaria pronta a sconsigliare l’uso della tortura e a scoraggiare denunce e delazioni, un organismo molto più mite e indulgente dei tribunali civili del tempo” (e c’è un abisso rispetto a ciò che la cultura e le ideologie moderne hanno provocato, e i cui eredi sono proprio coloro che si scandalizzano dell’Inquisizione e ne diffondono ancora la leggenda nera) (F. Pappalardo e F. Cardini).

Inoltre, un grave errore commesso da chi perpetua la “leggenda nera” sull’Inquisizione è spesso quello di accomunare sotto questo termine ogni tipo di Inquisizione (medievale, romana, spagnola, portoghese, persino protestante e addirittura quella civile), attribuendo tutto alla Chiesa Cattolica, senza distinzioni.

Tra l’altro, neppure tutti i Processi della vera Inquisizione cattolica sono da attribuirsi alla Chiesa in quanto tale, e tanto meno al Papa (e meno ancora alla sua infallibilità, che possiede sulle questioni dottrinali, ma non certo su quelle civili e penali). Non è infatti purtroppo mancato, in determinate circostanze storiche, sia l’influsso delle vicende politiche del tempo, sia il condizionamento e la pressione dei sovrani locali, talora persino sul giudizio dei Vescovi (come nel triste caso, come vedremo, di S. Giovanna d’Arco). Non a caso il Papa, proprio attraverso un suo Inquisitore – e prima ancora attraverso la predicazione di monaci o frati – cercava non solo di ristabilire l’autentica verità della dottrina ma anche di offrire la garanzia di indipendenza e di autonomia di giudizio nei confronti delle pressioni esercitate da parte dei regnanti locali e persino dello stesso furor di popolo!

Ricordiamo infine come un serio studio storico non deve poi mai giudicare il passato con i criteri e la sensibilità dell’oggi, ma collocarsi il più possibile nella prospettiva e nella mentalità del tempo che sta analizzando.

Come sappiamo, la civiltà medievale era ad esempio talmente intrisa di cristianesimo, che tutto ciò che veniva a minare la fede cristiana veniva inteso non solo come danno temporale ed eterno alle anime (il che è vero) ma anche come minaccia ai fondamenti stesso della società e della civiltà (come del resto la storia della modernità ha poi nel tempo tristemente testimoniato). Per questo le eresie (giudicate dalla Chiesa cattolica con l’autorità datale da Cristo stesso) assai spesso venivano intese dal potere temporale (civile) anche come enorme danno sociale, e perciò anche come reato, e quindi gli eretici come rei, passibili cioè di un giudizio anche civile e penale.

1.3 – Una vergogna cattolica e un postumo “mea culpa” della Chiesa?

E’ molto triste che questo mito anticattolico sia penetrato persino in casa cattolica, insieme a molti altri pregiudizi anticattolici, così che molti cattolici si vergognino della storia della Chiesa e molti giovani ne restino scandalizzati e non credano così più che essa sia lo “strumento” voluto da Cristo stesso per la salvezza dell’uomo.

Tutti i pregiudizi e le falsità, tuttora continuamente divulgati, sono noti anche all’ultimo ragazzino, mentre lo stesso cattolico medio (persino colto) è quasi del tutto ignaro e dimentico delle infinite opere di bene che la Chiesa ha ovunque realizzato nella storia (oltre alla salvezza delle anime), tanto da plasmare e diventare l’elemento portante dell’intera nostra civiltà.

Si veda in proposito il recente ed autorevole studio americano: T. E. Woods Jr. in How the catholic Church built western civilization, Washington D.C., 2001 (trad. it., Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale, Cantagalli SI 2007)].

Per perpetuare questo mito (e i danni spirituali che ne conseguono) è stato di recente inventato che oggi finalmente anche la Chiesa non avrebbe più pudore a riconoscere la sue colpe storiche e ne avrebbe infatti chiesto (un tardivo) perdono. Ad esempio si dice che in occasione del Giubileo del 2000 anche il Papa Giovanni Paolo II avrebbe riconosciuto questi errori e questi mali compiuti dalla Chiesa e ne avrebbe chiesto (a  Dio e al mondo) un significativo anche se tardivo “mea culpa”!

Questo è falso e [come abbiamo già detto anche a riguardo delle Crociate (v. documenti nel sito)] anche particolarmente pericoloso per la fede (e quindi per la salvezza della propria anima), perché crollerebbe in questo modo la certezza che la Chiesa annuncia senza possibilità di errore la Verità che salva e in essa opera lo Spirito Santo per il bene eterno delle nostre anime. Questa ammissione di errori nel passato ci autorizzerebbe inoltre a dissentire allora da ciò che la Chiesa ci annuncia oggi, perché un domani potrebbe appunto riconoscere di aver sbagliato a dirci quello oggi che ci dice! Così arriva infatti a pensare la gente, ben guidata (senza forse neppure accorgersene) da un pensiero ostile alla Chiesa e ai fondamenti stessi del cristianesimo: la Chiesa è arretrata, si sbaglia, … e dopo secoli ci arriva pure lei stessa finalmente a riconoscerlo … quindi siamo autorizzati a non seguirne gli insegnamenti!

In realtà, in occasione del Giubileo del 2000 Giovanni Paolo II volle anzitutto che venisse fatta memoria dell’immenso numero di “martiri” cristiani, uccisi anche dalle moderne ideologie anticattoliche (40 milioni di martiri cristiani solo nel XX secolo!) [v. omelia per la Commemorazione dei testimoni della fede del XX secolo, Colosseo 7.05.2000] – cosa passata invece sotto silenzio! – e poi che venisse compiuta, con grande umiltà e correttezza, anche una cosiddetta  “purificazione della memoria”, nel senso di riconoscere pure gli errori e i peccati che molti cristiani hanno compiuto nella storia (in quanto incoerenti e quindi andati contro il cristianesimo stesso) e se certi “metodi” di divulgazione e difesa della Verità (che tale rimane ancor oggi e per sempre! – mentre le ideologie della modernità si sono anche storicamente dimostrate false e sono già tramontate, nonostante le loro inaudite violenze e le centinaia di milioni di morti prodotti) non sono stati sempre evangelici, anche se comprensibili nel loro tempo [v. omelia nella “Giornata del perdono”, 12.03.2000]. Si doveva però procedere ad una attenta analisi storica, senza alcuna paura della verità né da parte cattolica né da parte laica.

Per questo, anche a riguardo dell’Inquisizione, Giovanni Paolo II istituì un’apposita Commissione storico-teologica “che esaminasse la questione storica per giungere ad un giudizio non emotivo o di parte ma oggettivamente fondato”. Al termine dei lavori di detta Commissione, condotti con l’apporto di autorevoli esperti in scienze storiche, essa fu ricevuta da Giovanni Paolo II il 31.10.1998, tenendo un importante discorso [lo storico A. Borromeo scriverà sul Corriere della Sera del 15.06.2004 che “la ricchezza dei dati forniti da tale Convegno organizzato in Vaticano, consente di rivedere alcuni luoghi comuni assai diffusi tra i non specialisti: il ricorso alla tortura e la condanna alla pena di morte non furono così frequenti come si è per molto tempo creduto (…) Oggi – che si studia l’Inquisizione non più per difendere o attaccare la Chiesa – il dibattito può tornare su un piano scientifico, e la documentazione accessibile lo consente (…) Persino la famosa <caccia alle streghe> (ne furono condannate al rogo solo un centinaio – contro le 50.000 persone condannate al rogo in prevalenza dai tribunali civili europei nell’età moderna) o le terribili torture sono più un luogo comune che una verità storica”].

2) Una premessa importante: il diritto e il dovere della difesa della retta dottrina

2.1 – La vera fede

Anzitutto non si capisce nulla della questione, se si nega a priori (come fanno l’Illuminismo, la massoneria e il relativismo dominante) che Dio si sia rivelato, per la salvezza dell’uomo.

Come abbiamo già visto in altra parte del sito [Per capire la fede: Questione 4 e Questione 5], Dio ha tanto amato gli uomini da nascere, morire in Croce e risorgere per la salvezza di ogni uomo (1Gv 4,9-10); per questo, prima di salire al cielo (pur rimanendo per sempre con noi), ha dato ordine alla Chiesa (la “Sua” Chiesa, fondata su Pietro) di portare il Vangelo ad ogni uomo, di ogni tempo e di ogni luogo, annunciando la Verità (che Egli è) e donando la Vita divina (che Egli è e ci dona) attraverso i sacramenti che ci uniscono a Lui (cfr. Mt 28,18-20).

Gesù è l’unico salvatore dell’uomo, perché – in quanto vero uomo e vero Dio – è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini. La Sua Parola è dunque la Verità, senza possibilità d’errore, autentica e insuperabile Parola di Dio rivolta a tutti gli uomini di tutti i tempi. Credendo alla Sua Parola e fatti partecipi di Lui – specie attraverso i Sacramenti – siamo salvati dall’inferno (causato dal peccato originale e dai nostri personali peccati mortali) e si riaprono per noi le porte del Paradiso, cioè della piena ed eterna comunione con Dio.

La Verità, che Gesù è e che ci ha rivelato, non è stata però affidata essenzialmente a un libro, interpretabile a piacimento, ma a una comunità viva (la Chiesa), guidata dagli Apostoli (nella storia: i Vescovi) con a capo Pietro (nella storia: il Papa). A loro Gesù affida la Parola (Verità) che salva e dona lo Spirito Santo affinché la comprendano e l’insegnino con verità. Il Magistero (insegnamento ufficiale del Papa e dei Vescovi uniti con lui) ci offre questa garanzia, condizione della nostra salvezza. Ciò si realizza pienamente nella Chiesa Cattolica. E così nella storia è sempre stato; e sempre sarà (v. Mt 16,18-19). Non si tratta dunque di opinioni umane, né semplicemente di una religione o filosofia al pari delle altre o semplicemente più vera di altre, ma della autentica Parola di Dio all’umanità, per la salvezza eterna di ogni uomo.

Nell’annuncio della verità che salva (autentica dottrina) e nel donare oggettivamente la vita divina (attraverso i sacramenti), la Chiesa guidata da Pietro (il Papa) non si sbaglia, perché Gesù ci vuole così bene che la assiste col Suo Santo Spirito e non permette che qualcuno ne resti privo e si danni per sempre.

2.2 – La  difesa dell’autentica fede (dottrina) è un segno dell’amore di Dio e della Chiesa

Siamo dunque immensamente grati a Dio che ci offre nella storia questa garanzia soprannaturale e oggettiva dell’autentico Suo insegnamento, l’unico che ci salva. Senza questa garanzia, cadremmo nella confusione, nel caos delle interpretazioni soggettive (come nelle diverse comunità protestanti, che infatti si moltiplicano nella storia e non sono neppure in accordo tra loro), col serio pericolo di smarrire la via sicura per raggiungere il paradiso.

2.3 – La  difesa dell’autentica dottrina, nelle parole di Gesù e in tutto il Nuovo Testamento

Non è affatto vero che nella Parola di Dio, anche nel Nuovo Testamento e nelle parole stesse di Gesù, ci venga dato semplicemente il comandamento di un amore vago, irenico, senza alcuna relazione con la verità; anzi, la prima preoccupazione è proprio quella della salvezza dell’anima, propria e altrui, che ci viene solo dall’aderire alla retta dottrina, alla Verità. 
Ecco alcune citazioni.

Gesù dice:

“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna […] Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto” (Mt 10,28.32-41).

“Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare. Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che esser gettato con due piedi nella Geenna. Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” (Mc 9,42-29).

“Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli. Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.  Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 3,13-20).

“Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna” (Mt 5,29-30).

“Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci” (Mt 7,15).

“Se il tuo fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo” (Mt 18,15-18).

“È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli” (Lc 17,1-3).

Nel resto del Nuovo Testamento:

1Cor 4,6-13: Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità. Vi ho scritto nella lettera precedente di non mescolarvi con gli impudichi. Non mi riferivo però agli impudichi di questo mondo o agli avari, ai ladri o agli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo! Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è impudico o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!

Ef 5,6-11: Nessuno vi inganni con vani ragionamenti: per queste cose infatti piomba l’ira di Dio sopra coloro che gli resistono. Non abbiate quindi niente in comune con loro. Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente.

Col 2,6-9: Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie. Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità …

1Tm 1,3-4.18-20: Partendo per la Macedonia, ti raccomandai di rimanere in Efeso, perché tu invitassi alcuni a non insegnare dottrine diverse e a non badare più a favole e a genealogie interminabili, che servono più a vane discussioni che al disegno divino manifestato nella fede. […]Questo è l’avvertimento che ti do, figlio mio Timoteo, in accordo con le profezie che sono state fatte a tuo riguardo, perché, fondato su di esse, tu combatta la buona battaglia con fede e buona coscienza, poiché alcuni che l’hanno ripudiata hanno fatto naufragio nella fede; tra essi Imenèo e Alessandro, che ho consegnato a satana perché imparino a non più bestemmiare.

1Tm 4,1-6: Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza. Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie dai fedeli e da quanti conoscono la verità. Infatti tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera. Proponendo queste cose ai fratelli sarai un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito come sei dalle parole della fede e della buona dottrina che hai seguito.

1Tm 6,3-5: Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà, costui è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. Da ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi, i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la pietà come fonte di guadagno.

2Tm 4,1-5: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero.

Tt 1,10-11; 2,1: Vi sono infatti, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente. A questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono in scompiglio intere famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto cose che non si devono insegnare […]Tu però insegna ciò che è secondo la sana dottrina.

Eb 10,26-31: Infatti, se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli. Quando qualcuno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto maggior castigo allora pensate che sarà ritenuto degno chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’alleanza dal quale è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia? Conosciamo infatti colui che ha detto: A me la vendetta! Io darò la retribuzione! E ancora: Il Signore giudicherà il suo popolo. È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!

2Pt 2,1-3; 18-21: Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di impropèri. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma la loro condanna è già da tempo all’opera e la loro rovina è in agguato […] Con discorsi gonfiati e vani adescano mediante le licenziose passioni della carne coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell’errore. Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto. Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato.

1Gv 2,18-19.21-22.24-26: Figlioli, questa è l’ultima ora. Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo conosciamo che è l’ultima ora. Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri […] Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità. Chi è il menzognero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio […] Quanto a voi, tutto ciò che avete udito da principio rimanga in voi. Se rimane in voi quel che avete udito da principio, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre. E questa è la promessa che egli ci ha fatto: la vita eterna. Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano di traviarvi.

1Gv 4,1-6: Non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo. Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto questi falsi profeti, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo. Costoro sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da ciò noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore.

2Gv 7-11: Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo! Fate attenzione a voi stessi, perché non abbiate a perdere quello che avete conseguito, ma possiate ricevere una ricompensa piena. Chi va oltre e non si attiene alla dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo; poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse.

Gd 3-8.12-13.17-23: Carissimi, avevo un gran desiderio di scrivervi riguardo alla nostra salvezza, ma sono stato costretto a farlo per esortarvi a combattere per la fede, che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte. Si sono infiltrati infatti tra voi alcuni individui – i quali sono già stati segnati da tempo per questa condanna – empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio, rinnegando il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo. Ora io voglio ricordare a voi, che già conoscete tutte queste cose, che il Signore dopo aver salvato il popolo dalla terra d’Egitto, fece perire in seguito quelli che non vollero credere, e che gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la propria dimora, egli li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno. Così Sodoma e Gomorra e le città vicine, che si sono abbandonate all’impudicizia allo stesso modo e sono andate dietro a vizi contro natura, stanno come esempio subendo le pene di un fuoco eterno. Ugualmente, anche costoro, come sotto la spinta dei loro sogni, contaminano il proprio corpo, disprezzano il Signore e insultano gli esseri gloriosi […] Sono la sozzura dei vostri banchetti sedendo insieme a mensa senza ritegno, pascendo se stessi; come nuvole senza pioggia portate via dai venti, o alberi di fine stagione senza frutto, due volte morti, sradicati; come onde selvagge del mare, che schiumano le loro brutture; come astri erranti, ai quali è riservata la caligine della tenebra in eterno […] Ma voi, o carissimi, ricordatevi delle cose che furono predette dagli apostoli del Signore nostro Gesù Cristo. Essi vi dicevano: “Alla fine dei tempi vi saranno impostori, che si comporteranno secondo le loro empie passioni”. Tali sono quelli che provocano divisioni, gente materiale, privi dello Spirito. Ma voi, carissimi, costruite il vostro edificio spirituale sopra la vostra santissima fede, pregate mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell’amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna. Convincete quelli che sono vacillanti, altri salvateli strappandoli dal fuoco, di altri infine abbiate compassione con timore, guardandovi perfino dalla veste contaminata dalla loro carne.

Ap 2,2-6: Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; li hai messi alla prova – quelli che si dicono apostoli e non lo sono – e li hai trovati bugiardi. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto. Tuttavia hai questo di buono, che detesti le opere dei Nicolaìti, che anch’io detesto.

Ap 2,14-16: Ma ho da rimproverarti alcune cose: hai presso di te seguaci della dottrina di Balaam, il quale insegnava a Balak a provocare la caduta dei figli d’Israele, spingendoli a mangiare carni immolate agli idoli e ad abbandonarsi alla fornicazione. Così pure hai di quelli che seguono la dottrina dei Nicolaìti. Ravvediti dunque; altrimenti verrò presto da te e combatterò contro di loro con la spada della mia bocca.

Ap 2,19-26: Conosco le tue opere, la carità, la fede, il servizio e la costanza e so che le tue ultime opere sono migliori delle prime. Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Iezabele, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli. Io le ho dato tempo per ravvedersi, ma essa non si vuol ravvedere dalla sua dissolutezza. Ebbene, io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, se non si ravvederanno dalle opere che ha loro insegnato. Colpirò a morte i suoi figli e tutte le Chiese sapranno che io sono Colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini, e darò a ciascuno di voi secondo le proprie opere. A voi di Tiatira invece che non seguite questa dottrina, che non avete conosciuto le profondità di satana – come le chiamano – non imporrò altri pesi; ma quello che possedete tenetelo saldo fino al mio ritorno. Al vincitore che persevera sino alla fine nelle mie opere, darò autorità sopra le nazioni.

Ap 14,9-12: Poi, un terzo angelo li seguì gridando a gran voce: “Chiunque adora la bestia e la sua statua e ne riceve il marchio sulla fronte o sulla mano, berrà il vino dell’ira di Dio che è versato puro nella coppa della sua ira e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell’Agnello. Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome”. Qui appare la costanza dei santi, che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù.

2.4 – Garantire l’autentica fede è un compito primario e fondamentale della Chiesa

Per questo, come vediamo già nella Chiesa dei primissimi tempi (cioè “apostolica”; v. già le citazioni di Paolo, Pietro, Giovanni e altre sopra riportate), così nei primi secoli (v. i primi Concili ecumenici) e sempre lungo la storia, una delle preoccupazioni principali della Chiesa è proprio quella di garantire l’autentica dottrina, difendendola non solo dagli attacchi dei non-cristiani, ma dalle stesse deformazioni (eresie) che possono sorgere continuamente all’interno stesso del cristianesimo. Non si tratta semplicemente di questioni accademiche o teologiche (per discussioni tra “dotti”), ma di garantire quella Verità divina che “sola” ci può salvare. Possiamo dire che non c’è cosa più importante da assicurare!

Infatti Gesù, nel Suo immenso amore per noi, ci garantisce che quando la Chiesa, sotto la guida di Pietro (e quindi il Papa), ci insegna l’autentica dottrina (cosa dobbiamo credere: cioè la fede; e cosa dobbiamo fare: cioè la morale), non può sbagliare, è infallibile, perché ha una particolare assistenza dello Spirito Santo per questo (cfr. Mt 16,18-19; Mt 18,18; Gv 16,12-15; Gv 21,15-19).

[Gesù non garantisce invece neppure a Pietro l’impeccabilità, cioè che non avrebbe sbagliato nel suo comportamento personale, anzi … cfr. Gv 13,38 e 18,27].

Insomma, non si capisce quanto sia importante difendere e garantire l’autentica fede se non si capisce che senza di essa (credere ad essa) non c’è salvezza eterna (cfr. Gv 3,16; 6,47; 17,3)!

Garantire l’autentica fede è dunque il principale dovere della Chiesa e veramente il segno più alto del suo amore per gli uomini di tutti i tempi e luoghi! Anzi, è il segno stesso dell’amore di Dio, che vuole che in questo modo tutti gli uomini siano salvi.

Per questo la Chiesa nella storia e fino alla fine del mondo assolverà a questo compito irrinunciabile e fondamentale. Anzi, la Chiesa ci sarà fino alla fine del mondo (Mt 16,18-19) proprio per questo: donare la Verità (dottrina) e la Vita (sacramenti) che salvano l’uomo dalla dannazione eterna e lo rendono partecipe delle vita e della felicità eterna di Dio.

2.5 – Difendere la fede cattolica non significa imporla

Anche se aderire alla fede cristiana (cattolica) è la condizione per la salvezza eterna di ogni uomo, questo non significa che essa debba o possa essere imposta. Anzitutto perché la fede deve essere accolta interiormente e con sincerità, altrimenti sarebbe vana; e quindi una fede obbligata non sarebbe già per sé una fede autentica e quindi non ci salverebbe. Poi perché Dio stesso accetta, e con immenso dolore del Suo Cuore, che la libertà che Lui ci ha donato (perché avessimo anche dei meriti) possa addirittura volgersi contro di Lui e la Verità che ci ha insegnato, anche a costo di vederci rovinare (e per questo esiste l’inferno e molti ci vanno).

Per questo, come vedremo, l’Inquisizione non imponeva la fede cristiana ai non cristiani; non aveva infatti alcun potere sui non cristiani; poteva infatti giudicare solo i battezzati (credenti in Cristo e appartenenti alla Chiesa Cattolica) che deformavano la vera dottrina cattolica, cioè la vera fede.

Il danno, soprattutto alle anime ma poi anche alla società, è poi particolarmente grave se a deformare o distruggere la vera fede sono addirittura i “ministri di Dio”, sacerdoti e religiosi predicatori (come nel caso del monaco Martin Lutero e ancor più del frate Giordano Bruno).

2.6 – Il dovere di impedire che la fede cattolica sia contraffatta dai suoi predicatori (e il diritto di chi ascolta di riceverla integra)

La fede va trasmessa con la predicazione (v. Rm 10,13-17; 1Cor 1,21), fa annunciata e difesa con argomentazioni e testimonianze in grado più di convincere che di vincere (1Pt 3,15). Ma va anche garantito al popolo che il predicatore trasmetta l’autentica fede (condizione di salvezza) e non le proprie idee od opinioni personali, tanto meno una dottrina che non è più quella di Cristo e che la Chiesa Cattolica fedelmente trasmette e interpreta, secondo il comando e la garanzia di Gesù.

Può quindi essere impedito – ed è perfino doveroso! – a un predicatore del Vangelo, tanto più se è addirittura un ministro di Dio, di annunciare una fede diversa da quella autentica; quantomeno il popolo di Dio deve essere messo in guardia dai falsi predicatori cristiani. Potremmo dire che è un preciso e fondamentale diritto dell’ascoltatore o lettore che gli sia offerta una fede non contraffatta, cioè fatta passare come cristiana mentre cristiana non è! E così esiste un particolare dovere (per sé ovvio) del predicatore cristiano di annunciare non una fede o una morale “a suo modo”, ma quella autentica. In altri termini: uno può predicare quello che vuole, ma non può predicare quello che vuole come autentico cristianesimo, se autentico cristianesimo non è. E che sia autentico cristianesimo, cioè autentica dottrina o morale cristiana, Gesù ha voluto che sia garantito da Pietro (il Papa) e non da un’interpretazione soggettiva o arbitraria.

A dire il vero questo principio vale per qualsiasi organizzazione anche solo umana e persino banale; figuriamoci se non deve valere per le cose di Dio, da cui dipende la nostra salvezza eterna!

In un comizio politico, ad esempio, colui che parla non può far passare come pensiero del suo partito politico la propria opinione personale; quanto meno deve onestamente dire che tale sua posizione non è la posizione del partito; altrimenti cambia partito (o il partito stesso lo zittisce o lo caccia).

Allo stesso modo uno non può partecipare a una squadra di calcio e pretendere poi di tirare il pallone con le mani; altrimenti va in una squadra di pallacanestro e non di calcio.

Non si capisce perché uno si sente allora in diritto di parlare come “cattolico” quando la sua dottrina volutamente non è quella cattolica!

2.7 – Una preoccupazione incomprensibile per il relativismo dominante (che però impone sempre più se stesso come pensiero unico)

Il relativismo, oggi sempre più dominante, parte invece dal presupposto – come un “dogma laico”, filosofico, indiscusso e per loro indiscutibile – che la verità non esista, che tutto sia opinione, che tutto si equivalga. Per questo sente l’annuncio della verità con fastidio e la difesa della verità come un controsenso, addirittura una violenza. In realtà non vuole neppure confrontarsi con le dottrine, non ne ascolta neppure le “ragioni”, neanche per negarle; dice solo a priori che è assurdo che qualche dottrina si presenti come “verità”.

Come sappiamo, questa è una posizione filosofica scettica, che però si contraddice o si costringe al silenzio (come diceva già Aristotele nella Metafisica): infatti afferma se stessa come verità assoluta e combatte contro chiunque la neghi (ecco la “dittatura del relativismo”, oggi emergente in modo anche socialmente preoccupante).

Il pensiero moderno e contemporaneo è scivolato sempre più in questa posizione scettica, oggi portata alle estreme conseguenze (nichilismo); ma non a caso ha prodotto poi ideologie e poteri statali “assolutisti”, estremamente violenti, come è accaduto già con la Rivoluzione francese e il Terrore che ne è seguito, così nel XX secolo con il nazional-socialismo e il socialismo-comunismo (producendo decine e decine di milioni di morti!). Oggi questa posizione scettica tende addirittura ad imporsi violentemente come unico pensiero, senza possibilità di dissenso (la “dittatura del relativismo”!), esercitando una sempre più violenta pressione culturale e politica, che obbliga a considerare equivalente ogni posizione morale, e mentre apparentemente difende ogni libertà e perfino ogni capriccio poi vieta ogni possibilità di opposizione a chi non si adegua al relativismo stesso.

2.8 – Anche l’Inquisizione è nata da questa preoccupazione d’amore

Come abbiamo sopra ricordato, la difesa dell’autentica fede (dottrina), contro ogni possibile e ricorrente tentativo di deformarla e persino di distruggerla, compromettendo così la salvezza eterna dell’uomo, è stata ovviamente sempre presente, secondo il comando stesso di Cristo, già dall’età apostolica. Fin da subito infatti sorsero gravi eresie (la parola significa “scelta”, cioè deformazione dell’integrità della fede), come quella gnostica, ariana, monofisita, nestoriana, pelagiana e tante altre; ma la Chiesa, attraverso il suo Magistero (insegnamento dei Papi), gli insegnamenti dei Padri (autori sacri dei primi secoli) e soprattutto le discussioni e conclusioni teologiche dei Concili [ad es. quelli di Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431), Calcedonia (451)], aveva saputo far fronte a questi attacchi interni alla stessa compagine cristiana e indicare la vera fede, mediante appunto canali teologici e documenti del magistero.

Diversa e ben più pericolosa questione si pose invece quando nel XII secolo, specie nella Francia meridionale, sorse la terribile eresia “catara”, che non solo (come vedremo) costituiva una sconcertante visione dell’uomo ma risultava fortemente destabilizzante la vita dell’intera società. Si trattava infatti non solo di una gravissima questione teologica, antropologica e spirituale, ma costituiva anche una vera e propria minaccia sociale. Non solo i regnanti, ma il popolo stesso, si sentirono minacciati e lesi nei loro fondamentali diritti, a tal punto da voler reagire in modo persino violento.

Per valutare esattamente la questione, onde evitare abusi da parte dei regnanti e del popolo stesso, il Papa istituì l’Inquisizione (Inquisizione medievale), che doveva appunto indagare (inquisire) come stessero effettivamente le cose, secondo un metodo di indagine e processuale talmente corretto da costituire un fondamento e un esempio illuminante nella stessa storia del “Diritto”. Alla Chiesa (Inquisizione) spettava indagare circa le questioni teologiche; dopodiché, qualora fosse stata effettivamente confermata l’eresia e non si fosse in alcun modo riusciti a farla rientrare nella autentica dottrina, vista anche la pericolosità sociale che rivestiva, nei casi più gravi (e rari) il colpevole (eretico) veniva abbandonato, come si diceva, al “braccio secolare”, cioè al potere civile, per l’attuazione della pena relativa (anche la pena di morte, allora contemplata).

Tale Inquisizione medievale durò un tempo relativamente limitato e terminò con la scomparsa della stessa eresia catara.

Un altro tipo di Inquisizione fu invece quella “spagnola”, come vedremo, o quella “portoghese”.

Quando nel XVI secolo scoppiò la “Riforma” protestante, secondo le radicali e molteplici eresie che portarono un terzo della stessa Europa cristiana a separarsi (scisma) dalla Chiesa Cattolica e a trasformare radicalmente molte verità della fede cristiana, il Papa istituì (nel 1542) una nuova Inquisizione (Inquisizione Romana), col medesimo scopo di indagare adeguatamente sull’eresia e difendere il più possibile il popolo cristiano da questi gravi errori, che potevano compromettere non solo la salvezza eterna dell’anima ma anche la stessa vita sociale (non a caso l’Europa andò poi incontro a terribili guerre, chiamate “di religione” ma in realtà dovute in gran parte ai nuovi poteri e regnanti in essa emergenti). Anche in questo caso, come vedremo, nonostante possibili abusi, le procedure processuali dell’Inquisizione cattolica furono in genere esemplari, assai al di sopra (per metodo e dignità) degli usi del tempo.

Anche le emergenti Chiese cosiddette “riformate”istituirono proprie Inquisizioni protestanti; ed esse si mostrarono in genere assai violente, condannando a morte un numero di persone assai maggiore di quanto non fecero le altre Inquisizioni.

Come vediamo, non ci fu dunque una Inquisizione, ma più Inquisizioni, e non tutto ciò che va sotto il nome di Inquisizione va attribuito alla Chiesa Cattolica, né tanto meno al Papa (come invece accade nella pubblicistica anticattolica).

2.9 – Come la Chiesa Cattolica (e il Papa) difende oggi l’autentica dottrina

Ovviamente, secondo il mandato ricevuto da Cristo stesso, ancor oggi e fino alla fine del mondo il Papa (successore di Pietro e Vicario di Cristo) ha il compito di garantire non solo l’unità della Chiesa ma anche l’autentica fede cristiana (cioè cattolica), che deve essere sempre promossa ma anche difesa contro i possibili e ricorrenti attacchi contro di essa, non solo da parte dei non cristiani o non cattolici, ma all’interno stesso della Chiesa Cattolica. Occorre quindi vigilare sulla autenticità della dottrina e il più possibile anche sulla predicazione e sulle pubblicazioni che la riguardano.

In questo universale compito ricevuto da Cristo il Papa è ovviamente aiutato ancor oggi dalla Curia Romana (i suoi primi collaboratori), in particolare da quel Dicastero (Ufficio) particolarmente deputato a questo scopo, che svolge a nome del Santo Padre le proprie ricerche e indagini (“inquisizioni”), valuta le questioni dottrinali e morali emergenti, comprese le relative più importanti “pubblicazioni” (libri), rispondendo anche a quesiti che giungono dalle Chiese sparse in tutto il mondo. Ovviamente tutto ciò sotto l’autorità del Papa, cui spetta il giudizio definitivo.

Continua quindi ad esserci nella Chiesa Cattolica e in modo specifico nella Curia Romana un organismo (Ufficio) con questo compito. Quello che veniva appunto detto Sant’Uffizio (della Inquisizione Romana), fu meglio ristrutturato nel 1908 dal Papa San Pio X (Sacra Congregazione del Sant’Uffizio); e nel 1965 Papa Paolo VI (con il Motu proprio Integrae servandae) lo trasformò in Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (com’è tuttora e ha sede nel palazzo attiguo al colonnato sinistro di piazza S. Pietro, che porta infatti ancora il nome di Palazzo del Sant’Uffizio).

Nel 1558 (ad un secolo dall’invenzione della stampa e quindi anche della nuova immensa possibilità di divulgazione di libri, e quindi pure degli errori) l’Uffizio dell’Inquisizione Romana instituì anche un elenco dei libri contenenti dottrine erronee sulla fede o morale cristiana, detto Index librorum prohibitorum (più comunemente Indice), per l’aggiornamento del quale fu istituita poco dopo una Congregazione dell’Indice”. [Nel 1554, l’università (ecclesiastica) di Parigi aveva già pubblicato un primo catalogo (Indice) dei libri proibiti]. Tale <Indice> fu invece soppresso nel 1966 (forse anche per l’attuale impossibilità di fornire un elenco anche solo approssimativo delle innumerevoli pubblicazioni erronee oggi circolanti).

La Congregazione per la Dottrina della fede interviene però tuttora su alcune pubblicazioni o interventi teologici particolarmente diffusi e gravemente erronei su alcuni punti della fede o della morale (oppure su segnalazione o richiesta di chiarimenti da parte di Vescovi), chiamando talora l’autore a confrontarsi con la Congregazione stessa e a correggerne gli eventuali errori; altrimenti la Congregazione può anche pubblicamente affermare che tale testo o intervento non è secondo l’autentica dottrina cattolica, mettendo così il popolo cristiano in grado di discernere pericolosi errori dottrinali e così difendersi da ciò che può essere anche gravemente nocivo per la propria salvezza.

3) Quando e perché certe eresie venivano considerate anche socialmente pericolose

S’è già detto che un serio studio storico non deve mai analizzare il passato e le vicende storiche con i criteri e la sensibilità dell’oggi.

Nell’Europa medievale, ad esempio, la fede cristiana aveva talmente pervaso non solo la vita dei singoli ma dell’intera società e cultura – certo coi limiti delle cose umane e pure nella compresenza del male e del peccato (che sarà definitivamente debellato solo in paradiso) – da essere intesa come il fondamento stesso della vita sociale e dell’intera civiltà occidentale.

Che la fede in Cristo fosse non solo la via necessaria per la salvezza eterna di ogni uomo ma anche il fondamento sicuro della stessa società, era talmente ovvio che ogni attacco contro la fede non poteva che essere avvertito che come un attentato anche ai fondamenti della stessa vita sociale.

Dobbiamo tener presente questo dato culturale e storico, per comprendere come, pur nel rispetto delle coscienze e della libertà religiosa, gli attacchi contro la fede cristiana fossero allora ritenuti pure una minaccia se non addirittura un crimine contro lo stesso bene comune sociale, al pari di quanto oggi la società si senta minacciata dal terrorismo o anche da dottrine sociali pericolose (in Italia è ad esempio reato l’apologia del fascismo). Che poi in certi casi, assai meno numerosi di quanto continuamente si dica, si giungesse anche alla pena capitale, deve essere ugualmente letto all’interno di una società civile che riteneva normale anche la condanna a morte (del resto come avviene ancor oggi in numerosissimi casi – migliaia all’anno! – e per motivi anche politici nella Cina comunista, oltre che in molti Paesi islamici, ma anche, in parte minore, in numerosi Paesi occidentali, compreso in molte moderne ed evolute democrazie, come gli USA).

Per questo, le deformazioni dell’autentica fede (come nel caso delle eresie che potevano sorgere all’interno stesso della cristianità) o gli attacchi contro di essa ad opera di avversari esterni (come nel caso della minaccia islamica alla stessa Europa) venivano intesi non solo dal potere costituito ma dall’intera opinione pubblica una minaccia e un pericolo della stessa vita sociale, da cui difendersi e possibilmente da debellare.

“Allora la difesa della salute dello spirito era considerata più importante di quella della salute del corpo, per cui in una società e civiltà intrisa di cristianesimo, l’Inquisizione aveva lo stesso ruolo di un attuale Ministero della Sanità, vigilando che non entrassero anticorpi capaci di distruggere (bastava però riconoscere l’errore per essere risanati). L’Inquisizione non era contro ebrei o musulmani (questi si sapeva che non erano nella fede autentica) ma analizzava (“inquisiva”) gli errati insegnamenti cristiani. La gente stessa lo esigeva; anzi, spesso l’Inquisizione placava gli animi contro i sospetti di eresia. Dove in Europa l’Inquisizione poteva intervenire, non scoppiarono infatti guerre di religione, come avvenne invece altrove in Europa” (V. Messori).

Che il combattimento contro l’eresia fosse non solo una preoccupazione della Chiesa ma anche della società civile è testimoniata dal fatto che fino al ‘700 nessun governo “laico” fu contrario a questi processi canonici, ma anzi l’Inquisizione frenava gli animi e garantiva una corretta analisi e procedura, affinché il popolo o i governi non fossero troppo impulsivi o violenti contro di essa.

“L’Inquisizione nasce in realtà per il desiderio del popolo, che sentiva un attacco contro la vera fede e quindi contro la salvezza eterna dell’anima ancora più pericoloso di chi attentasse – ad esempio oggi – alla salute pubblica o contro l’ambiente. Per l’uomo medievale l’eretico è il grande Inquinatore, che attira la punizione divina sull’intera comunità. Per questo l’Inquisitore è sentito come un liberatore. Se talvolta il popolo è insofferente per l’Inquisitore, non è per la sua severità ma per la sua poca severità (era troppo tollerante), il popolo andrebbe più per le spicce che per lenti e calmi processi” (V. Messori).

Così, quando con la soprannaturale autorità datale da Cristo stesso, la Chiesa giungeva a definire (dopo un rigoroso processo, con ogni garanzia per l’imputato di spiegarsi, difendersi o correggersi, come vedremo) come “eretica” una dottrina – cioè quando veniva presentata come cristiana e invece cristiana non era! – il potere temporale (allora si diceva “il braccio secolare”) poteva ritenere anche socialmente pericoloso o dannoso colui che la propugnava, e dal quale sentiva il diritto/dovere anche civile di difendersi. Per questo il diritto penale poteva infliggere anche pene, addirittura anche pene capitali, secondo l’uso del tempo per i crimini più gravi.

Tale potere temporale, solo raramente e solo in alcune zone geografiche d’Europa (in particolare in alcune regioni d’Italia), veniva esercitato dalla stessa autorità ecclesiastica (il Papa o i Vescovi). Normalmente tale potere era in mano all’autorità politica locale del tempo. Tali pene capitali in realtà sono state comminate ad un numero esiguo di persone (a Roma un solo caso!).

La difesa della vera fede veniva dunque intesa anche come difesa dell’intera società. Per questo già Federico II di Svevia (imperatore dal 1220 al 1250), riprendendo i codici di Teodosio e di Giustiniano, equiparava l’eresia al crimen lesae maiestatis, dove l’autorità lesa è qui addirittura Dio. Questa equiparazione verrà ripresa da Gregorio IX (1227-1241) nella costituzione Excommunicamus.

Rimane comunque vero che molte eresie, come è ad esempio quella dei Catari, giungevano a commettere veri e propri reati e crimini anche nei confronti della vita civica; a tal punto che talora non solo il furor di popolo ma gli stessi regnanti furono talmente impazienti di eliminare il pericolo e i reati da non aspettare neppure il giudizio della Chiesa.

Ad esempio, nel 1112 i 3000 seguaci dell’eretico Tanchelmo di Utrecht si impadronirono di due città, uccidendo e saccheggiando. Non riuscendo a convertirli la mediazione e predicazione di S. Norberto (il fondatore dei Premostratensi) lo stesso Duca di Lorena (Goffredo il Barbuto) risolse la questione militarmente. Così le autorità civili intervennero senza attendere il giudizio della Chiesa per sedare le rivolte provocate nel 1140 dall’eretico bretone Eudes de Stella. Lo stesso re di Francia Roberto il Pio nel 1017 processò direttamente un gruppo di eretici di Orleans, condannandone 13 a morte. Nel 1040 gli abitanti di Monforte, divenuti tutti catari, insorsero sotto la guida dell’eretico Gerardo, e risultando vano l’intervento del Vescovo di Milano, furono travolti dalla furia dei popoli limitrofi. Nel 1114 il vescovo di Soissons, Lisiardo, dopo aver fatto arrestare alcuni eretici si era recato al concilio di Beauvais per consultarsi con altri vescovi sul da farsi, ma al suo ritorno trovò che il popolo, che prendeva la misericordia della Chiesa per debolezza,aveva già messo al rogo di propria iniziativa quegli eretici (R. Cammilleri).

4) Le diverse Inquisizioni

Come abbiamo osservato, la polemica anticlericale che ha creato il mito dell’Inquisizione commette anche l’errore storico (voluto) di riunire sotto un unico titolo diverse forme di Inquisizione, che si sono succedute nei secoli e in contesti culturali diversi, anche quelle che non c’entrano nulla con la Chiesa Cattolica, persino quelle istituite nelle Chiese Protestanti (e particolarmente violente) o addirittura quelle nate in ambito civile (con gli abusi dei regnanti locali), accusando di tutto solo la Chiesa Cattolica, oltre ad inventare di sana pianta fatti storici mai accaduti o ingigantendone in modo abnorme i dati. Anche la storiografia massonica e quella marxista, che tanto incidono sulle pubblicazioni tuttora in circolazione e che costruiscono il persistente immaginario collettivo sulla questione, compiono spesso questo errore.

Vediamo allora in modo più accurato, sia pur sinteticamente, le diverse Inquisizioni, con particolare attenzione all’Inquisizione cattolica.

a) Nel Medioevo

4.1 – Il contesto sociale e culturale della nascita delle eresie dell’XI-XII secolo

Le eresie medioevali sono in qualche modo una novità: dopo il grande scontro iniziale con la gnosi cristiana e con le eresie ariana e monofisita (per citare le più importanti), la Chiesa cattolica aveva attraversato secoli di relativa calma, dove il problema più importante era stato riuscire a evitare un assoggettamento al potere imperiale e temporale durante la lotta per le investiture. Il nemico era per lo più esterno alla Cristianità: i popoli barbari ancora pagani, gli Slavi a est, i Normanni a nord, e soprattutto i saraceni e i Turchi (musulmani) che insidiavano dal Mediterraneo.

A partire dalla rinascita dell’XI-XII sec., l’urbanesimo aveva conosciuto in Italia, in Provenza e in altre regioni europee un rinnovato rigoglio. Con la ripresa economica e sociale delle città fa la sua comparsa sulla scena una nuova classe sociale: la borghesia. Composta per lo più da commercianti, da artigiani e piccoli industriali, da cambiavalute, questa classe sociale dinamica e intraprendente impara spesso a leggere e a scrivere, per necessità lavorative, e viaggia in regioni lontane per esigenze legate ai traffici e alle fiere. Alcuni borghesi alfabetizzati iniziano a leggere anche direttamente le Sacre Scritture (Bibbia) e a interpretarle, senza però conoscere né la Tradizione, né il Magistero. In questo clima sociale e culturale nascono così anche numerose eresie (non a caso il fondatore del movimento valdese era un mercante), che a partire da questi anni scuoteranno l’Europa cristiana, fino all’esplosione della Riforma protestante, che tutte le riassume.

Fino al XII secolo le eresie erano solo di tipo dottrinale e venivano combattute sul quel piano. Invece le nuove eresie del XII secolo assumono pure il tono di forze sovversive sociali.

Per questo Papa Lucio III, con la Costituzione Ad abolendam (4.11.1181), invitò i Vescovi a fare più attenzione nel ricercare e respingere l’eresia, indicando di visitare almeno due volte l’anno le proprie diocesi, anche per “ricercare (inquisitio) se vi fossero dottrine eretiche ed eretici”. Questo rinnovato e ufficiale mandato ai Vescovi a “indagare” sulle eresie e difendere l’ortodossia può essere considerata una sorta di “Inquisizione episcopale”.

Si ammise però per la prima volta la possibilità che potesse intervenire contemporaneamente anche l’autorità civile, là dove lo richiedesse la garanzia dello stesso ordine civile.

Il Papa convocò poi a Verona nel 1184 un Concilio che affrontasse meglio la questione delle eresie, presentandosi già quella aberrante dei Catari.

Onde evitare possibili incompetenze e soprattutto abusi, dovuti anche a questioni di potere locale, il Papa Innocenzo III (1161-1216; papa dal 1198), anche mediante il convocato (1215) Concilio Lateranense IV, decise di inviare, là dove emergessero questioni di particolare gravità, dei propri “legati”, che esaminassero le questioni dottrinali con maggiore competenza teologica e soprattutto con maggiore libertà dai condizionamenti politici locali. Questa può essere definita una “Inquisizione legaziale”.

L’eresia “catara” (o degli Albigesi)

Nel XII secolo sorse invece nella Francia meridionale (Linguadoca, specie dalla città di Albi, per cui tali eretici furono anche chiamati “albigesi”) una eresia non solo particolarmente grave e disumana, ma che, anche per la propaganda e talora persino la coercizione della nobiltà di quelle terre (e per motivi di possedimenti più che per motivi religiosi), ebbe una qualche presa sul popolo, a differenza di altre precedenti eresie che interessarono più che altro i teologi e i dotti. Venne quindi a costituire una gravissima minaccia non solo alla vita spirituale ma anche a quella sociale.

4.2 – In che cosa consisteva l’eresia catara e perché era anche socialmente pericolosa

Quella dei Catari o Albigesi fu una stranissima eresia, che non aveva un eresiarca (fondatore) e si diffondeva a macchia d’olio (giunse perfino a invadere l’Italia settentrionale, spingendosi fino a Rimini e toccò le stesse città papali di Orvieto e Viterbo) in modo subdolo ma pericolosissimo. Anzi, non ci si accorse forse neppure che la negazione dell’autentica dottrina era qui talmente radicale da non costituire praticamente più neppure un’eresia (una deformazione della vera fede) ma addirittura un’altra religione, che col cristianesimo aveva ormai ben poco in comune.

Si trattava di una visione globale della vita e della realtà a sfondo manicheo (cioè una concezione dualistica della realtà, con due principi creatori ugualmente potenti, il Bene e il Male), ma che rivelava un particolare odio per la “materia”, considerata male in quanto tale, e quindi anche per la carne, per il corpo umano, ma anche per tutte le istituzioni umane (religiose e civili). I catari (la parola significa “i puri”) si opponevano per questo ad ogni uso della sessualità, fino a proibire anche il matrimonio e la procreazione, e promuovendo per questo l’aborto. Giunsero persino a predicare e spingere al suicidio (persino suicidi rituali o “endura”).

L’endura era una pratica consistente in un digiuno caratterizzato dall’astinenza totale dal cibo e dall’acqua. Tale digiuno rappresentava una forma estrema di negazione di sé e di separazione dal mondo materiale, considerato appunto la sede del male. Era convinzione diffusa che questo sacrificio finale avrebbe assicurato la riunificazione dell’anima con il Dio del bene, dopo aver conseguito la pratica del Consolamentum (Battesimo con il Fuoco dello Spirito Santo).

Il loro falso spiritualismo, che faceva leva sulla necessità di un minor attaccamento ai beni materiali e sul desiderio popolare di maggiore povertà e sobrietà nella vita politica (regnanti) e religiosa (clero), giungeva però a rifiutare ogni istituzione e autorità, sia religiosa che civile.

Il loro disprezzo per la materia minava i fondamenti stessi della fede cristiana. Giunsero infatti a negare l’Incarnazione (Dio non poteva infatti aver preso un “corpo”), e quindi il fondamento stesso della fede cristiana (Gesù: Dio fatto uomo), ma anche i sacramenti (dal Corpo e Sangue di Cristo che è l’Eucaristia, agli elementi materiali degli altri sacramenti, attraverso la quale il Signore stesso opera e ci “tocca”) e ovviamente anche la finale “risurrezione della carne”. Rifiutavano l’autorità della Chiesa (quando ci riuscivano espellevano persino il Vescovo!) e creavano una chiesa parallela (se non palese almeno sotterranea).

Tale odio per la materia e per l’umano aveva anche gravissime conseguenze sociali: negavano appunto ogni autorità civile e politica, l’amministrazione pubblica, opponendosi al giuramento (che nel medioevo era considerato sacro e socialmente vincolante), alle imposte, alla vita militare.

Già nel 1004 a Chalons, ad esempio, il cataro Leutard, lasciata la moglie, si mise a distruggere le immagini sacre nelle chiese e a predicare contro le autorità; la folla voleva linciarlo, ma il vescovo (Gebuino) riuscì a calmare gli animi, inducendo per clemenza a crederlo semplicemente pazzo.

Il potere civile avvertì quindi la minaccia sociale di tale eresia, perché tali idee minavano la stessa compagine sociale: per questo ne avvertì una preoccupazione persino maggiore di quella del Vescovo o della Chiesa, pensando di reagire anche politicamente (potere civile e penale).

La Chiesa, una volta individuata e denunciata l’eresia e riprecisata l’autentica dottrina, intervenne semmai per indagare (inquisire) se gli accusati e imputati come “eretici” lo fossero realmente, per qual motivo lo fossero (se per ignoranza o per volontaria opposizione) e se vi si ostinassero una volta redarguiti, limitando in questo modo l’opposizione spesso violenta del popolo o dei tribunali laici.

Papa Innocenzo III pensò anzitutto di rinvigorire la predicazione della vera fede (autentica dottrina). Inviò quindi ad Albi un proprio legato (Pietro di Castelnaux) per capire meglio la grave situazione (religiosa e civile) là emersa; ma tale suo inviato venne ucciso dai Catari il 15.01.1208 (forse su mandato dello stesso conte di Tolosa, Raimondo VI, grande protettore dei Catari)! A questo punto si comprese meglio la gravità della situazione e i pericoli anche sociali che tale eresia costituiva. Il Papa chiese allora (o, per taluni, accettò) l’intervento militare del re di Francia, dando inizio nel 1209 ad una specie di Crociata contro gli Albigesi (Catari).

L’intervento militare del re di Francia fu fortemente appoggiato dai sovrani locali della Francia settentrionale, i quali però furono attirati più dalla possibilità di estendere in questo modo i loro domini sulle ricche zone del sud della Francia (appunto la Linguadoca e la Provenza) che da genuine preoccupazioni dottrinali e religiose. Per questo la questione si tinse spesso anche di valenze politiche difficilmente districabili da quelle religiose.

Per la prima volta non si trattava infatti di difendere la fede e i cristiani dai nemici esterni alla cristianità (come quella dei musulmani che avevano invaso la Palestina, la Turchia e minacciavano l’Europa intera), ma da pericolosi nemici interni al cristianesimo e nella stessa Francia.

La Crociata contro gli Albigesi fu predicata persino da S. Bernardo di Chiaravalle, il grande santo monaco riformatore, fondatore dei Cistercensi (così come predicò la II Crociata).

I Catari si organizzarono allora in “società segrete”, talora protetti segretamente dai sovrani locali, che speravano e spesso ottenevano che tale ribellione contro la Chiesa permettesse loro di incamerarne i beni.

4.3 – Il primo passo: la predicazione della “verità”

Come sempre, la prima preoccupazione e missione della Chiesa, secondo il mandato di Cristo stesso, fu quello di annunciare la verità, cioè l’autentica dottrina cristiana. Fu la preoccupazione per così dire “in positivo”, complementare e prioritaria rispetto a quella “in negativo” di correggere l’errore, cioè le false dottrine, che potevano arrecare anche gravissimi danni alla vita spirituale e persino alla salvezza eterna delle anime. Si trattava inoltre di rinvigorire l’autentica morale cristiana e quindi non solo di quella personale o familiare ma di conseguenza anche i costumi sociali.

Per questo, oltre alla normale predicazione e catechesi, il Papa stesso si incaricò più volte di porre in atto particolari “missioni”, cioè straordinarie predicazioni della verità evangelica; e per far questo si affidò non solo ai Vescovi e ai sacerdoti diocesani, come è nella costituzione stessa della Chiesa, ma agli “ordini religiosi” (ai consacrati con voti religiosi, che vivevano normalmente nei monasteri e nei conventi), anche per la loro significativa e forte testimonianza di vita cristiana.

All’inizio ci si affidò alla predicazione dei monaci, spingendoli quasi oltre la loro abituale clausura e vita contemplativa, in particolare all’ordine benedettino dei cistercensi (fondato appunto da S. Bernardo di Chiaravalle).

Poi lo Spirito Santo, proprio in quel tempo (XII-XIII secolo), suscitò i nuovi ordini religiosi (francescani e domenicani), che associavano alla loro esemplare essenzialità e povertà evangelica soprattutto il compito di essere “predicatori” itineranti del Vangelo (anche per questo S. Francesco inizialmente non pensava neppure ai conventi). Proprio per la loro povertà (erano tra l’altro ordini mendicanti, cioè vivevano di elemosina) questi predicatori godevano anche di una particolare stima del popolo e con la loro stessa testimonianza di vita andavano anche incontro a quel desiderio di povertà e di essenzialità di vita che spesso non trovavano invece in certo clero.

In particolare S. Domenico (di Guzman, 1170-1221) fondò un nuovo ordine religioso che, oltre ad essere particolarmente devoto della Madonna e a Lei consacrato (a loro si deve in gran parte la diffusione della preghiera del S. Rosario), avesse proprio il particolare carisma della predicazione, sostenuta da una vita contemplativa ma anche da un’ottima formazione teologica: è appunto l’Ordine, persistente e diffuso ancor oggi, dei Frati Predicatori, detti più comunemente Domenicani, appunto dal nome del loro fondatore.

Anche l’Ordine dei Frati minori (Francescani) erano stati suscitati dallo Spirito secondo un carisma di povertà, nella fedeltà assoluta alla Chiesa e all’autentica dottrina, che S. Francesco visse e divulgò in modo eccezionale, spingendo poi i suoi frati a girare il mondo come testimoni di Cristo ma anche come infaticabili predicatori. S. Francesco all’inizio fu diffidente, anche per i suoi frati, nei confronti degli studi, persino teologici, ritenendo che assai spesso fossero occasione per insuperbirsi. Ma si accorse poi dell’importanza di possedere una buona preparazione teologica proprio per far fronte alle deviazioni e alle eresie, principalmente a quella catara. Ne fu un segno la provvidenziale aggregazione tra i suoi frati di un giovane proveniente da Lisbona (Ferdinando, che prese il nome di Antonio e che divenne il grande Santo di Padova), il quale nascose per molto tempo sotto l’umiltà e povertà francescana un’enorme sapienza teologica, ma che poi si rivelò in un’eccezionale capacità di predicazione (e di far miracoli!). La predicazione di Sant’Antonio di Padova, specie nel nord-est italiano, ebbe una grande incidenza popolare; ma fu anche in grado di far fronte alla dilagante eresia catara (è il caso della sua predicazione a Rimini, dove un iniziale fallimento provocò il famoso miracolo della predicazione ai pesci).

Così il Papa affidò proprio ai Domenicani il compito della predicazione nella regione francese della Linguadoca, per far fronte anche a quella terribile eresia (catara) che vi stava crescendo a dismisura, con gravi danni non solo per le anime ma per l’intera società.

Ma ascoltiamo cosa disse riguardo a S. Domenico e anche alla sua particolare missione in Linguadoca il Papa Benedetto XVI, all’Udienza generale del 3.02.2010 (come è riportato anche nel sito, nella sezione: Sulle orme < dei Santi < Domenico):

“Il Vescovo di Osma, che si chiamava Diego, un vero e zelante pastore, notò ben presto le qualità spirituali di Domenico, e volle avvalersi della sua collaborazione. Insieme si recarono nell’Europa del Nord, per compiere missioni diplomatiche affidate loro dal re di Castiglia. Viaggiando, Domenico si rese conto di due enormi sfide per la Chiesa del suo tempo: l’esistenza di popoli non ancora evangelizzati, ai confini settentrionali del continente europeo, e la lacerazione religiosa che indeboliva la vita cristiana nel Sud della Francia, dove l’azione di alcuni gruppi eretici creava disturbo e l’allontanamento dalla verità della fede. L’azione missionaria verso chi non conosce la luce del Vangelo e l’opera di rievangelizzazione delle comunità cristiane divennero così le mète apostoliche che Domenico si propose di perseguire. Fu il Papa, presso il quale il Vescovo Diego e Domenico si recarono per chiedere consiglio, che domandò a quest’ultimo di dedicarsi alla predicazione agli Albigesi, un gruppo eretico che sosteneva una concezione dualistica della realtà, cioè con due principi creatori ugualmente potenti, il Bene e il Male. Questo gruppo di conseguenza disprezzava la materia come proveniente dal principio del male, rifiutando anche il matrimonio, fino a negare l’incarnazione di Cristo, i sacramenti nei quali il Signore ci “tocca” tramite la materia, e la risurrezione dei corpi. Gli Albigesi stimavano la vita povera e austera (in questo senso erano anche esemplari) e criticavano la ricchezza del Clero di quel tempo. Domenico accettò con entusiasmo questa missione, che realizzò proprio con l’esempio della sua esistenza povera e austera, con la predicazione del Vangelo e con dibattiti pubblici. A questa missione di predicare la Buona Novella egli dedicò il resto della sua vita. I suoi figli avrebbero realizzato anche gli altri sogni di san Domenico: la missione ad gentes, cioè a coloro che ancora non conoscevano Gesù, e la missione a coloro che vivevano nelle città, soprattutto quelle universitarie, dove le nuove tendenze intellettuali erano una sfida per la fede dei colti.

A Domenico di Guzman si associarono poi altri uomini, attratti dalla stessa aspirazione. In tal modo, progressivamente, dalla prima fondazione di Tolosa, ebbe origine l’Ordine dei Predicatori. Domenico, infatti, in piena obbedienza alle direttive dei Papi del suo tempo, Innocenzo III e Onorio III, adottò l’antica Regola di sant’Agostino, adattandola alle esigenze di vita apostolica, che portavano lui e i suoi compagni a predicare spostandosi da un posto all’altro, ma tornando, poi, ai propri conventi, luoghi di studio, preghiera e vita comunitaria. In particolar modo, Domenico volle dare rilievo a due valori ritenuti indispensabili per il successo della missione evangelizzatrice: la vita comunitaria nella povertà e lo studio.

Anzitutto, Domenico e i Frati Predicatori si presentavano come mendicanti, cioè senza vaste proprietà di terreni da amministrare. Questo elemento li rendeva più disponibili allo studio e alla predicazione itinerante e costituiva una testimonianza concreta per la gente. Il governo interno dei conventi e delle provincie domenicane si strutturò sul sistema di capitoli, che eleggevano i propri Superiori, confermati poi dai Superiori maggiori; un’organizzazione, quindi, che stimolava la vita fraterna e la responsabilità di tutti i membri della comunità, esigendo forti convinzioni personali. La scelta di questo sistema nasceva proprio dal fatto che i Domenicani, come predicatori della verità di Dio, dovevano essere coerenti con ciò che annunciavano. La verità studiata e condivisa nella carità con i fratelli è il fondamento più profondo della gioia. Il beato Giordano di Sassonia dice di san Domenico: “Egli accoglieva ogni uomo nel grande seno della carità e, poiché amava tutti, tutti lo amavano. Si era fatto una legge personale di rallegrarsi con le persone felici e di piangere con coloro che piangevano”.

In secondo luogo, Domenico, con un gesto coraggioso, volle che i suoi seguaci acquisissero una solida formazione teologica, e non esitò a inviarli nelle Università del tempo, anche se non pochi ecclesiastici guardavano con diffidenza queste istituzioni culturali. Le Costituzioni dell’Ordine dei Predicatori danno molta importanza allo studio come preparazione all’apostolato. Domenico volle che i suoi Frati vi si dedicassero senza risparmio, con diligenza e pietà; uno studio fondato sull’anima di ogni sapere teologico, cioè sulla Sacra Scrittura, e rispettoso delle domande poste dalla ragione.

Il motto dei Frati Predicatori – contemplata aliis tradere – ci aiuta a scoprire, poi, un anelito pastorale nello studio contemplativo di tale verità, per l’esigenza di comunicare agli altri il frutto della propria contemplazione.

Quando Domenico morì nel 1221, a Bologna, la città che lo ha dichiarato patrono, la sua opera aveva già avuto grande successo. L’Ordine dei Predicatori, con l’appoggio della Santa Sede, si era diffuso in molti Paesi dell’Europa a beneficio della Chiesa intera. Domenico fu canonizzato nel 1234, ed è lui stesso che, con la sua santità, ci indica due mezzi indispensabili affinché l’azione apostolica sia incisiva. Anzitutto, la devozione mariana, che egli coltivò con tenerezza e che lasciò come eredità preziosa ai suoi figli spirituali, i quali nella storia della Chiesa hanno avuto il grande merito di diffondere la preghiera del santo Rosario, così cara al popolo cristiano e così ricca di valori evangelici, una vera scuola di fede e di pietà. In secondo luogo, Domenico, che si prese cura di alcuni monasteri femminili in Francia e a Roma, credette fino in fondo al valore della preghiera di intercessione per il successo del lavoro apostolico. Solo in Paradiso comprenderemo quanto la preghiera delle claustrali accompagni efficacemente l’azione apostolica!”

L’Inquisizione medievale

4.4 – L’Inquisizione medievale

Quando fu evidente che sulla questione dei Catari non bastava più la semplice predicazione, né l’intervento del Vescovo locale (Inquisizione vescovile) e neppure di un semplice “inviato” del Papa (Inquisizione legaziale – ricordiamo che il 15.01.1208 i Catari avevano già ucciso il suo legato ad Albi Pietro di Castelnaux), e quando anche la situazione sociale diventava sempre più incandescente – e avrebbe in effetti trascinato la Francia in una terribile guerra intestina – il Papa Gregorio IX istituì nel 1231 (con la Costituzione Excommunicamus) una vera e propria Inquisizione”, cioè un vero Tribunale (ecclesiastico, papale) in grado di svolgere serie e obiettive indagini, dotato di teologi in grado di avere le dovute competenze per analizzare le questioni dottrinali, di giudici che fossero imparziali e slegati dalle questione di potere locali, affidando poi l’esecuzione delle eventuali pene al potere politico locale.

Non solo molti sovrani locali ma lo stesso Luigi VII (1120-1180), fortemente allarmato, spinse il Papa a prendere posizione e a permettere al Vescovo di sconfiggere questa eresia. Ma il Papa era pure preoccupato di non tradurre il problema religioso in termini sociali e politici. Per lo stesso motivo molti vescovi si mostrarono contrari a un intervento che non fosse semplicemente dottrinale. Giunse al Papa anche notizia che “tutto il popolo lo chiede e sarà immensamente grato al Papa se vorrà intervenire”. Il popolo infatti non solo era assai favorevole all’intervento del Papa, ma si sarebbe mostrato assai più severo e intransigente contro questi eretici (così il grande storico Moulin). Anche per questo, cioè per correttezza, come certamente anche a scopo deterrente, i Processi (e le esecuzioni) furono sempre pubblici.

Il Papa (cioè ufficialmente la Chiesa) è quindi spinto ad intervenire anche dal fatto che il popolo e le autorità locali spesso intervengono in modo arbitrario, non riuscendo a individuare bene cosa sia vera dottrina e cosa sia invece eresia, con eccessi che rischiano di colpire anche innocenti.

Il Tribunale dell’Inquisizione nasce quindi anche da una vera esigenza di “giustizia”, assicurando una regolarità, imparzialità e correttezza di procedura – con una altrove impensabile possibilità di tutela e difesa degli stessi imputati, così da permettere agli innocenti di essere riconosciuti tali ma anche agli ingenui che fossero incorsi in eresia senza colpa di riconoscerla e persino agli eretici stessi di pentirsi ed essere così immediatamente assolti – che oggi nuovi seri studi storiografici riconoscono senza problemi.

Il Papa Gregorio IX affida ai poveri ma dottissimi Domenicani, come pure ai Francescani, il compito di “legati pontifici” preposti al Tribunale inquisitoriale così stabilito per quella regione francese infettata dalla terribile eresia catara. Essi, oltre ad essere teologicamente preparati e di profonda vita ascetica, erano assai stimati e ben accolti dal popolo, ma risultavano anche saggiamente autonomi non solo rispetto ai regnanti locali ma persino ai Vescovi, e quindi in grado di una maggiore obiettività e imparzialità di giudizio. Il fatto poi di dover render conto del proprio operato al Papa stesso, li spingeva ad essere ancor più seri, onesti e rigorosi nelle loro indagini (il Papa aveva infatti il potere di rimuoverli immediatamente, qualora risultassero inadeguati o corrotti nel loro alto mandato).

Ad esempio, quando nel 1305 giunsero a Roma reclami contro l’inquisitore di Carcassonne, il papa Clemente V mandò in ispezione due cardinali francesi (Pierre Taillefer e Berengario Frédol), che sospesero ogni procedimento in atto contro eretici per tutta la durata della loro ispezione. Ascoltarono i prigionieri, uno ad uno. Ammisero che le lamentele avevano qualche fondamento e cacciarono gli Inquisitori, sostituendoli, quindi assegnarono ai prigionieri stanze migliori e ristrutturate ex novo. I prigionieri ottennero di poter passeggiare entro la cinta muraria quanto volevano. I cardinali visitarono poi anche la prigione di Albi, dove fecero aprire nei muri ulteriori e più ampie finestre.

Come abbiamo già sottolineato, l’Inquisizione era al servizio del popolo cristiano, come garanzia dell’autentica fede cattolica. Doveva infatti vigilare che venisse predicata dai cristiani e ai cristiani l’autentica fede in Cristo. Non aveva quindi alcun potere sui non cristiani. Non si trattava quindi assolutamente di imporre la fede cristiana a qualcuno che non lo fosse, ma che se si presentava come cristiano, e specialmente come predicatore cristiano, la sua dottrina la fosse effettivamente.

4.4.1 – Leggende nere sull’Inquisitore

L’Inquisitore, in quanto inviato (legato) del Papa era quindi il “garante” della correttezza del Processo, contro non solo possibili erronei o affrettati giudizi dottrinali da parte del Vescovo o della Chiesa locale, ma contro ogni possibile abuso da parte dell’autorità civile del posto, e persino a difesa dal “furor di popolo”, oltre ad essere garanzia per lo stesso imputato di un regolare processo, con tanto di possibilità di difesa, di spiegare la propria posizione, di capire il proprio eventuale errore (e se ritrattava il processo si fermava immediatamente) o di riparare all’eventuale danno sociale arrecato.

Talora era proprio l’Inquisitore a rimetterci la vita, come abbiamo già visto è accaduto a Pietro di Castelnaux, inviato dal Papa ad Albi e ucciso dai Catari il 15.01.1208 (o come avverrà in Italia con l’uccisione di S. Pietro da Verona).

Contrariamente a ciò che spesso divulga la “leggenda nera” laicista, l’Inquisitore papale era persona molto dotta e preparata, specie ovviamente in campo teologico.

Prendiamo il caso dell’Inquisitore Bernard Gui (Bernardus Guidonis, domenicano francese, 1261-1331, Inquisitore, poi vescovo in Galizia), protagonista del celebre romanzo anticlericale Il nome della rosa di Umberto Eco e calunniato anche attraverso il relativo film di Annaud: presentato come ignorante e violento, in realtà questo Procuratore generale dell’Ordine domenicano è considerato “uno dei più notevoli storici del ‘300, come pure il migliore storico domenicano del medioevo” (A. Redigonda), addirittura “uno dei più prolifici scrittori del medioevo” (scrisse anche un famoso “Manuale  dell’Inquisitore”, Practica Inquisitionis Heretice Pravitatis). “La sua opera è considerevole per l’eccezionale precisione documentaria” (meticolosissimi resoconti dei processi, oggi consultabili dagli Archivi dell’Inquisizione).

Così dovrà concludere la propria indagine in proposito l’autorevolissimo studio (sugli Archivi storici dell’Inquisizione) del grande storico Leo Moulin (sopra menzionato – v. op. cit. L’Inquisizione sotto inquisizione): “Gui ha svolto il compito di Inquisitore dal 1308 al 1323 (quando poi fu eletto Vescovo) – prima a Tolosa (sulla questione dei Catari) poi nella Spagna settentrionale. In tutti questi anni si è occupato di 930 casi (imputati). Non pronunciò nessuna condanna nel 1315, 1317, 1318 e 1320. Su 930 imputati (in 15 anni), solo 42 vengono “abbandonati al braccio secolare” (+ 3 incerti), mentre 139 sono stati gli assolti, 307 furono i condannati alla prigione, e i rimanenti  mentre tutti gli altri (439) furono “condannati a pene minori di straordinaria mitezza” [ad esempio 143 furono condannati a portare una o più croci sull’abito (“crucesignati”) – ma di questi poi 132 ricevono la grazia di non portarla affatto o di non portarla più dopo un certo tempo – e 9 furono condannati a fare un pellegrinaggio]. Insomma, il terribile Inquisitore descritto da Umberto Eco ne Il nome della rosa e portato a simbolo della presunta ferocia dell’Inquisizione, nella realtà storica era molto dotto e mite e, dopo rigorosissimi processi, inflisse solo queste condanne (abbandonando al braccio secolare, cioè alla pena di morte, solo 42 persone su 930, in 15 anni di esercizio della sua funzione).

Del resto, così scriveva lo stesso Bernard Gui nel suo tanto vituperato “Manuale dell’Inquisitore”: “(L’Inquisitore) deve essere diligente e fervente nel suo zelo per la verità religiosa, per la salvezza delle anime e per l’estirpazione dell’eresia. Tra le difficoltà e le contrarietà deve rimanere calmo, mai cedere alla collera né all’indignazione. Egli deve essere intrepido, affrontare il rischio fino alla morte, ma senza arretrare di fonte al pericolo, né aumentarlo a causa di un’audacia irriflessiva. Deve essere insensibile alle preghiere e alle lusinghe di quelli che provano a conquistarlo; tuttavia non deve indurire il suo cuore al punto da rifiutare proroghe o mitigazioni della pena a seconda delle circostanze e dei luoghi … Nei casi dubbi deve essere circospetto, non dare facilmente credito a quello che sembra probabile e spesso non è vero; non deve rifiutare ostinatamente le opinioni contrarie, perché ciò che sembra improbabile finisce spesso per essere la verità. Deve ascoltare, discutere ed esaminare con tutto il suo zelo per arrivare con pazienza alla luce … Che l’amore della verità e la pietà, che devono sempre risiedere nel cuore di un giudice, brillino nel suo sguardo, in modo che le decisioni non possano mai sembrare dettate dalla cupidigia e dalla crudeltà”.

Circa le procedure e le effettive condanne dell’Inquisizione papale, torneremo in seguito.

A metà del XIV, cioè dopo due secoli, l’eresia catara – che tanto danno fece alla Francia e provocò aspre lotte intestine all’interno della stessa società europea – risultava definitivamente debellata.

Così, il tribunale dell’Inquisizione medievale vide la sua attività ridursi fino al punto di sparire.

4.4.2 – Una nota sugli interventi in Italia

Com’è noto, l’Italia cattolica non conobbe la triste esperienza di gravi eresie sorte al suo interno, ma fu ugualmente sporadicamente intaccata da alcune eresie, compresa quella dei Catari.

Quello dei Valdesi è un movimento sorto nel XII secolo (tradizionalmente fatto risalire a Valdo di Lione) sulla scia e nello stile dei contemporanei movimenti “pauperisti” (con il loro forte richiamo alla povertà della Chiesa – assai diversi però dai nascenti e cattolicissimi ordini mendicanti dei Francescani e Domenicani!) però onestamente lontano dall’eresia catara. Anzi vollero per molto tempo essere nel grembo della Chiesa Cattolica, cercandone l’approvazione al Concilio Lateranense III (1179) e si rivolsero per questo allo stesso Papa Alessandro III. Il Pontefice ne apprezzò pure la semplicità evangelica e povertà di vita, ma non approvò la loro pretesa di lettura (e interpretazione) individuale della Bibbia e non li autorizzò per questo a predicare. Poiché invece essi, disobbedendo gravemente al Papa, continuarono a farlo [facendo adepti in Piemonte, dove tuttora persistono (anche per l’accoglienza ricevuta nel 1848 da Carlo Alberto), e in alcune zone della Lombardia, della Puglia e della Calabria; ma si espansero anche in altre nazioni europee], furono scomunicati nel 1181 (con la Costituzione di Lucio III Ad abolendam) insieme ad altri gruppi eretici “pauperisti”. I Valdesi di fatto si divisero poi tra loro costituendo diversi e differenziati gruppi ereticali, fino a quando nel 1532 aderirono sostanzialmente alla Riforma protestante di Calvino. Allo stesso modo nel 1979 hanno siglato un patto di integrazione coi Metodisti, formando un’unica comunità confessionale.

La Chiesa, e in particolare i Vescovi, dovevano però vigilare attentamente (tra l’altro proprio questo è il significato del termine “vescovo”!) perché non sorgessero eresie all’interno delle proprie comunità cristiane. Abbiamo osservato come il Papa Lucio III avesse richiamato a questa vigilanza. L’invio di propri Inquisitori (Inquisizione medievale) offriva un ulteriore aiuto in questo senso. E talora tali Inquisitori correvano il pericolo di attentati e mettevano a rischio la loro stessa vita; avvenne persino in Italia, come nel caso del domenicano Pietro da Verona, peraltro assai amato dal popolo cristiano e poi proclamato santo col titolo di “martire”, che nel 1252 fu assassinato in Lombardia da due eretici locali, i quali poi non solo si pentirono, ma si convertirono e si fecero pure domenicani (uno addirittura, Carino da Balsamo, è venerato come beato e sepolto nella cattedrale di Forlì)!

E ciò contrariamente a quanto afferma ad esempio “il testo anticlericale La civiltà dell’Occidente medievale di Jacques Le Goff (santone della medievistica laica), che presenta i Domenicani talmente fanatici contro l’eresia da suscitare la ribellione della gente, che a Verona giunse infatti ad uccidere l’Inquisitore domenicano Pietro da Verona (che tra l’altro non fu ucciso neppure a Verona)” [V. Messori].

Ecco altri esempi sull’Inquisizione medievale in Italia:

Nel febbraio del 1286 il papa Onorio IV concesse a tutti gli abitanti della Toscana un’amnistia da potersi lucrare sia individualmente che collettivamente. Essa riguardava le pene in cui i toscani fossero eventualmente incorsi per eresia. Non solo. Il pontefice abrogò del tutto i decreti emanati dall’imperatore Federico Il contro gli eretici. Questi decreti erano draconiani ed andavano da un massimo (il solito rogo) a un minimo (taglio della lingua per tutti quelli che, per un motivo o per l’altro, gli inquisitori avessero deciso di risparmiare). E pensare che provenivano da un imperatore oggi considerato “moderno” per la sua “laicità”. Infatti Federico II, più volte scomunicato, era in perenne lotta col papato e aveva proprio nelle città ghibelline della Toscana le sue principali roccaforti. Lo “straordinario privilegio concesso dal papa ai toscani fu mantenuto nel tempo” e costrinse l’americano Henry C. Lea (sue le parole citate) a intitolare un capitolo della sua (vecchia e) monumentale opera sull’Inquisizione così: “Mitezza della Santa Sede”. Dato significativo, dal momento che gli altri capitoli hanno titoli del genere “Consigli infami degli inquisitori”, “Insolenza degli inquisitori”, e via insultando. Continuiamo. Un pontefice passato alla storia per la sua durezza, Bonifacio VIII, accolse moltissimi ricorsi contro sentenze inquisitoriali, il primo appena tre mesi dopo la sua elezione. Il 13 febbraio 1297 cassò la condanna di Raniero Gatti di Viterbo e dei suoi due figli perché determinata da una testimonianza vera ma resa da un testimone trovato in precedenza inaffidabile per spergiuro. Nel 1298 fece restituire ai figli di un eretico i ben confiscati al padre. Lo stesso anno costrinse l’inquisitore di Orvieto (città caduta in mano ai catari che vi si erano distinti per omicidi e rapine) a smettere di molestare un cittadino già assolto dal precedente inquisitore [R. Cammilleri].

b) L’Inquisizione spagnola

4.5 – La particolare situazione della Spagna

Come abbiamo più volte osservato, assai spesso (e quasi sempre nella storiografia anticattolica che ha creato il mito dell’Inquisizione) viene compiuto l’errore storico di riunire sotto l’unico termine di Inquisizione diversi tipi di Inquisizione, e di attribuire sempre alla Chiesa Cattolica e addirittura al Papa stesso, ciò che tutte queste Inquisizioni hanno compiuto, mentre assai spesso la responsabilità “diretta” della Chiesa è assai ridotta se non del tutto assente.

Ad esempio, nell’immaginario collettivo Inquisizione e l’Inquisizione spagnola vengono di fatto a coincidere, così che certe efferatezze della seconda (se e quando ci furono) sono ingiustamente attribuite all’Inquisizione o alla Chiesa in quanto tale. In realtà anche questo è un errore storico. Dobbiamo allora capire quale fosse la specifica situazione spagnola.

I sovrani di Spagna, dopo la paradossale invasione musulmana che durò praticamente dall’VIII al XV secolo, sentivano ovviamente come priorità il dovere di riconquistare (“reconquista”) alla vera fede cristiana ma soprattutto di ricomporre in unità il loro popolo e la loro terra.

A questo scopo i ‘cattolici’ sovrani Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia (il cui matrimonio, contribuì nel XV secolo alla riunificazione della Spagna e alla liberazione dall’invasione islamica) chiesero più volte al Papa di avere in Spagna un “Tribunale inquisitoriale”, per la difesa della fede e dell’identità cattolica di Spagna. Inoltre, trattandosi di problematiche tipicamente spagnole, essi volevano che tale Tribunale fosse un organismo governativo, che dipendesse cioè di fatto dal re e non più dal Papa.

Il Papa fu molto titubante nel riattivare un’Inquisizione che era nata per ben altre situazioni storiche e dottrinali (l’eresia catara). Alla fine, però, il Papa Sisto IV il 1°.11.1478 concesse ai cattolici reali spagnoli (che dopo tanti secoli avevano restituito la Spagna alla Chiesa e ai quali non poteva negarsi quindi tanto facilmente) di istituire l’Inquisizione spagnola (la Suprema y General Congregacion de la Inquisicion); ottenne però che a capo di essa ci fosse un uomo di suo gradimento (il primo fu il domenicano Tomas de Torquemada).

4.6 – L’Inquisizione spagnola

Fin dall’inizio più che un organo della Chiesa fu quindi uno strumento del neonato Stato spagnolo, utilizzato per consolidare sul piano etnico, religioso e ideologico un Paese pieno di religioni, razze e tradizioni diverse, in un’epoca in cui non era pensabile un’unità politica non fondata sull’unità delle fede. Il Papa in teoria poteva sì nominare e deporre l’Inquisitore generale, ma di fatto veniva scelto e controllato dal monarca.

Fin dal ‘400 l’Inquisizione spagnola si differenziò da quella medievale passando sotto il controllo della corona (F. Cardini). L’Inquisizione spagnola fu uno strumento eminentemente politico della corona spagnola per la ricostruzione dell’unità del popolo spagnolo, anche in riferimento agli ebrei e ai musulmani; e “non c’è nessuno storico che oggi attribuisca tale Inquisizione alla Chiesa in quanto tale” (L. Negri).

La “cattolicissima” Spagna sentiva cioè nell’Inquisizione la garanzia della sua stessa unità popolare (e per non cadere anch’essa nelle tristi e turbinose situazioni che avevano già dilaniato la  Francia). E infatti storicamente sono state infatti poi risparmiate alla Spagna quelle divisioni e lotte che tanto hanno insanguinato l’Europa per secoli.

Di fatto seguì per la Spagna il “siglo de oro”, dovuto certo anche a motivo della scoperta dell’America (compiuta com’è noto dal nostro Cristoforo Colombo ma finanziata dai Reali spagnoli), con una fioritura non solo religiosa ma anche d’arte e di cultura come mai ci furono e ci saranno nella storia spagnola. Al Gran Inquisitor si deve ad esempio anche la fondazione della celebre Facoltà di scienze di Salamanca, dove peraltro si insegnava la teoria copernicana (contrariamente a quanto dice l’altra leggenda nera anticattolica). Ma sarà anche l’epoca dei grandi santi e mistici di Spagna, riformatori del Carmelo, cioè S. Giovanni della Croce e S. Teresa d’Avila (peraltro di origine conversa), come del fondatore della Compagnia di Gesù (Gesuiti) Ignazio di Loyola. È il tempo di Bartolomé de Las Casas, dei grandi dibattiti giuridici che fonderanno il moderno diritto internazionale e l’universalità dei diritti umani. Ancora, è il secolo dei Muguel de Cervantes e dei grandi pittori. Tutto ciò, mentre nel resto d’Europa si dilania in guerre di religioni e caccia alle streghe (Rino Cammilleri).

In tutto l’Impero spagnolo, Olanda e America incluse, operarono 300 Inquisitori stabili più 300 temporanei, un pugno di uomini, in grado comunque di risparmiare alla Spagna la diffusione del Protestantesimo e quelle guerre di religione che insanguinarono invece la Francia (M. D’Amico).

Pur non compiendo tutto ciò che la polemica anticattolica le attribuisce, rimane però vero che l’Inquisizione spagnola fu più dura di quella medievale come di quella romana (comunque assai meno di quella protestante, per non parlare dei sommari e feroci processi dei Tribunali dei moderni Stati  laici e assolutisti).

L’Inquisizione spagnola fu comunque così sanguinaria come viene spesso descritta? Non sembra.

Lo storico Henningsen, analizzando col computer i dati riferiti a circa 50.000 processi, ha rilevato solo l’1,9% di condanne a morte, che peraltro non si traducevano poi tutte in effettiva esecuzione. Anche lo storico John Tedeschi, analizzando 44.000 processi dell’Inquisizione spagnola tenutisi tra il 1540 e il 1700, riscontra la pena capitale comminata a 820 imputati (pari appunto all’1,9%). A Toledo un terzo degli imputati del XVII secolo venne rilasciato dopo il processo senza alcuna sanzione. Anche le torture furono usate assai raramente (e sono nulla a confronto con la barbarie delle torture degli Stati moderni). Inoltre, sempre dall’analisi dei processi svoltosi a Toledo, si evince che solo una denuncia su 10 dava inizio a un processo, tanta era la prudenza e la correttezza degli Inquisitori. Nelle regioni basche fu proprio l’Inquisitore spagnolo Salazar y Frias a salvare le presunte streghe dalla popolare “caccia alle streghe”; così anche nelle Fiandre la caccia alla streghe cessò proprio quando furono occupate dagli spagnoli.

Dopo il Concilio di Trento (1545), l’Inquisizione spagnola concentrò tra l’altro la propria azione sulle mancanze gravi del clero e dedicò molti sforzi a moralizzare i costumi sessuali (già molto bassi nella società castigliana).

Ai tempi in cui in Francia scoppiava la moderna e laicissima Rivoluzione del 1789, con la sua scia di migliaia e migliaia di morti (e ghigliottinati), la dura Inquisizione spagnola risultò assai più mite. Lo storico Jean Dumont riporta ad esempio il caso di Pablo de Olavide, il quale, condannato al carcere proprio dalla tanto vituperata Inquisizione spagnola, chiese di venir trasferito in zona termale per via di certi suoi disturbi. Accontentato, trovò che le cure non gli giovavano e ottenne allora uno spostamento al confine pirenaico. Da qui gli fu così più agevole scappare in Francia, dove venne accolto dai tagliatori di teste giacobini come “martire” della intolleranza cattolica. Ma sotto il Terrore conobbe le ben diverse galere giacobine: esperienza talmente traumatica, da indurre poi Pablo a tornare nella Chiesa Cattolica e terminò la sua vita scrivendo apologie della religione cattolica.

4.7 – Ebrei e musulmani in Spagna

Come abbiamo già detto, l’Inquisizione non aveva alcuna competenza e potere sui non cristiani; riguardava infatti la garanzia dell’autentica fede nei Battezzati. Ma in Spagna c’era la questione di una forte presenza sia di ebrei che di musulmani. Questo creò una problematica particolare.

Gli Ebrei costituivano in effetti una percentuale saliente della popolazione iberica. In alcune regioni raggiungevano addirittura il 30% degli abitanti. Comunque il rispetto della loro fede era tale da permettere loro di godere persino di privilegi commerciali (come quello di poter tenere i propri negozi aperti anche durante le numerosissime festività religiose cattoliche). Essi possedevano molti beni e gestivano una buona parte del commercio, esercitando per questo una certa influenza anche sui sovrani locali. Assi di frequente esercitavano però l’usura e questo contribuì a creare un diffuso malcontento popolare. Alla fine si chiese perfino l’intervento dell’Inquisizione contro di loro; ma l’Inquisizione non aveva appunto alcun potere di giudizio sugli appartenenti ad altre religioni. Ma nel 1492 i reali di Spagna promulgarono una legge che ne decretava l’espulsione dal Paese*. Questo spinse certamente molti ebrei a farsi cristiani (conversos); ma come si può immaginare in molti casi la fede cristiana era in loro simulata (marranos), rimanendo di fatto ebrei, con gravi confusione sociale e in ordine anche alla dottrina (a quale fede davvero aderivano?). A questo punto però, trattandosi di fede cristiana, poteva e persino doveva intervenire l’Inquisizione spagnola.

[Fin dall’inizio del XV secolo molti ebrei di Spagna si erano convertiti al cristianesimo, certamente anche per godere di una maggiore integrazione sociale; ma è erroneo parlare, come molti hanno fatto, di “conversioni forzate”].

(*): Che la Chiesa di Roma non fosse d’accordo con tale espulsione lo si evince anche dal fatto che il neo eletto Papa Alessandro VI (1492-1503, il tanto vituperato Papa Borgia) accolse a Roma migliaia di ebrei fuggiti dalla Spagna, superando incredibilmente la forte ostilità degli stessi ebrei romani (come sappiamo nella Roma dei Papi è sempre vissuta la più grande e antica comunità ebraica della diaspora). Sotto Sisto V (1585-1590), le finanze papali furono addirittura amministrate da un “marrano” (Lopez).

Analoga situazione, anche se di minori proporzioni, si creò nei confronti dei musulmani rimasti nella penisola iberica. Si parla anche in questo, impropriamente, di conversioni forzate (moriscos), specie nella prima parte del XVI secolo; in realtà si può parlare di pressioni sociali e non certo di conversioni alla fede cristiana imposte dall’Inquisizione, che appunto non aveva alcun potere sui non cristiani. Di fatto nel 1609 la Corona spagnola promulga una legge che decretava anche la loro espulsione dalla Spagna.

A questo punto è ancora più evidente come l’invocata Inquisizione spagnola potesse diventare uno strumento efficace dei sovrani spagnoli per contribuire a edificare di nuovo l’unità sociale, culturale e religiosa del Paese. In questo ci furono certamente degli abusi da parte del potere locale, come da parte del popolo stesso. Al fine di arginare il più possibile questa situazione e questi abusi, il Papa nominò un proprio Inquisitore generale, che avesse giurisdizione al di sopra degli stessi giudici locali, a garanzia di obiettività e di correttezza dei processi. Si trattò del domenicano Tomas de Torquemada (1420-1498), peraltro proveniente da una famiglia di conversos (appunto di ebrei convertiti; e questo come prova di imparzialità) e che fu pure il Confessore della regina Isabella.

Anche e proprio a proposito del Torquemada si è scatenata nei secoli la calunnia anticlericale, facendone la caricatura quale l’Inquisitore per antonomasia, il crudele e violento inviato dell’oscurantismo papale per estirpare ogni libero pensiero e obbligare con forza alla fede cattolica. Ma anche in questo caso le cronache autentiche del tempo ci dicono qualcosa di diverso: viene infatti descritto come “uomo di costumi integerrimi, nonché uno dei maggiori mecenati e protettore degli artisti dell’epoca, inquisitore mite e liberale, che ottenne anche ampie amnistie, come quella del 1484”. Certamente “un uomo rigoroso ma di grande correttezza; di fatto molto lontano dalle caricature (anche cinematografiche) che se ne sono state fatte” (così lo storico F. Cardini).

L’Inquisizione spagnola fu abolita definitivamente nel 1820.

4.8 – L’Inquisizione portoghese

L’Inquisizione portoghese fu istituita dal re Giovanni III, su autorizzazione del Papa Clemente VII, nel 1531 e durò fino al 1821. Fu, come quella spagnola, di pertinenza della “corona”; ma fu talmente mite che in questi quasi 3 secoli di storia inflisse solo 4 condanne alla pena capitale.

c) L’eresia “protestante” (Chiese Riformate)


4.9 – La nascita dell’eresia protestante

Quando nel XVI secolo scoppiò l’eresia “protestante”, avvenne una gravissima deformazione della fede cristiana trasmessa dagli Apostoli, tale da operare non solo un capovolgimento radicale e inedito della dottrina cristiana (circa l’interpretazione stessa della Bibbia, della fede cristiana, della giustificazione, della “grazia”, della libertà e della ragione, del sacerdozio ministeriale, della Eucaristia e abolendo la Confessione) ma da provocare uno scisma (cioè un grave distacco dalla Chiesa Cattolica fondata da Cristo sulla “roccia” che è Pietro, cioè sul Papa) che ha segnato non solo il resto della storia della Chiesa, ma ha minato alla radice la stessa unità spirituale e culturale dell’Europa.

Sostenute e condizionate dai nuovi poteri politici locali – che non videro l’ora di separarsi da Roma per poter costituire Chiese locali ad essi soggette e per di più incamerandone i beni! – la diverse Chiese cosiddette “Riformate” proliferarono a tal punto da trascinare fuori dalla Chiesa Cattolica quasi un terzo dell’intera Europa, lacerandola in un proliferare di eresie molteplici e persino in lotta tra loro e trascinandola in interminabili guerre tra popoli e gruppi religiosi.

“La Riforma protestante procurò gravissimi danni non solo alla cristianità, ma all’intera l’Europa, minando alla base la sua unità, provocando danni civili e guerre di religione (in realtà guerre tra popoli), con la formazione di Stati assoluti” (L. Negri).

Alle eresie e divisioni provocate da Martin Lutero (Martin Luther, 1483-1546), seguirono subito quelle operate da Giovanni Calvino (Juan Cauvin, 1509-1564), da Ulrico Zuinglio (Ulrich Zwingli, 1481-1531), Filippo Zelandone (Philip Schwarzwed, 1497-1560).

Il caso poi della Chiesa Anglicana, per sé meno dirompente dal punto di vista dottrinale di quella protestante (anzi, all’inizio ne prese le distanze) è in questo senso emblematico: com’è noto il Re d’Inghilterra Enrico VIII, abbandonata la moglie regina Caterina d’Aragona e volendo passare a nuove nozze con Anna Bolena, non ottenendo ovviamente il divorzio richiesto al Papa (anche se pare fosse in corso un esame per il riconoscimento di nullità), non solo la sposò ugualmente (25.01.1533; condannandola poi a morte 3 anni dopo, per passare ad avere nuove mogli ed amanti) ma, ricevuta la scomunica da Papa Clemente VII, nel 1534  costituì in Inghilterra e Galles una Chiesa autonoma (Anglicana) e se ne autoproclamò “Capo Supremo” (titolo poi modificato da Elisabetta I in “Governatore Supremo della Chiesa Anglicana”, che il sovrano inglese detiene ancor oggi, facendone uso nella nomina delle alte cariche ecclesiastiche, anche se Primate della Chiesa Anglicana è l’Arcivescovo di Canterbury).

Come vedremo più avanti, tutti coloro che vollero rimanere fedeli al Papa e alla Chiesa Cattolica vennero uccisi o emarginati dalla vita sociale, culturale e politica. Poi anche all’interno della Chiesa anglicana, come tra le Chiese protestanti, sono sorte sempre nuove divisioni, anche in base alle diverse nazioni (ad es. in Scozia e in molti paesi conquistati dagli inglesi, fino agli USA) e ai diversi riferimenti dottrinali e politici.

Anche la celebre università di Oxford, nata dalla Chiesa Cattolica (come la maggior parte delle storiche e prestigiose università europee) fu espropriata e affidata ovviamente agli Anglicani; ma poi passò addirittura ai Puritani, protestanti radicali che non aderivano a nessuna delle confessioni protestanti (anche lì, come vedremo, andò per un breve periodo G. Bruno).

Tale divisione e confusione dottrinale si estese poi al mondo intero, anche alle nuove terre e continenti pian piano scoperti, creando non solo una incresciosa situazione di confusione dottrinale ma lo scandalo – che persiste ancor oggi nel mondo intero – del continuo proliferare di Chiese non solo separate da quella Cattolica ma neppure in accordo tra loro (ne nascono a centinaia ancor oggi, e tutte secondo una loro particolare e diversa interpretazione della fede, mancando appunto il fondamento e la garanzia dell’autentica fede e della vera unità, voluto da Gesù, cioè il Papa). [v. nel sito La Chiesa Cattolica spec. punto 5.6]

4.9.1 – Il monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546)

Il giovane Martin Luther (Lutero) aveva frequentato la scuola di latino dei “Fratelli della vita comune” a Magdeburgo; poi, per volontà del padre, si iscrisse (1501) all’università di Erfurt; ma il 17.07.1505 entrò nel convento agostiniano di Erfurt. Qui, nel 1507, fu anche ordinato sacerdote, nonostante la contrarietà del padre (non convinto della serietà della sua vocazione). Il giovane monaco agostiniano si dedicò agli studi teologici e fu poi chiamato a insegnare all’Università di Wittenberg (1508), proseguendo poi gli studi biblici e teologici. Nel 1510 fu inviato a Roma, in rappresentanza del suo convento, per questioni interne all’Ordine (dirà poi che rimase turbato per la rilassatezza dei costumi da parte di molti ecclesiastici). Il 19.10.1511 si laureò in teologia e nel 1513 iniziò a tenere lezioni sui Salmi. Nel 1515 fu nominato dal capitolo degli Agostiniani Vicario generale dei (numerosi) conventi del distretto della Misnia e della Turingia, che visitò (rivestiva quindi un ruolo importante nell’Ordine agostiniano). Nello stesso anno iniziò le lezioni sull’Epistola ai Romani.

Nel 1514 papa Leone X concesse l’indulgenza plenaria (*) ai fedeli che, dopo la Confessione e la Comunione, come segno di penitenza, avessero fatto anche un’offerta per la costruzione della basilica di San Pietro a Roma.

(*) Non si trattava quindi di “vendere indulgenze”, né tanto meno il perdono dei peccati (secondo le false dicerie, secondo cui si sarebbe fatto commercio del perdono dei peccati); ma di un vero atto religioso (per ottenere l’indulgenza – cfr. il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1471-1479 – cioè la remissione della “pena” che permane anche dopo l’assoluzione dei peccati, occorre un vero distacco interiore dal peccato; ed è segno della misericordia di Dio e della Comunione dei Santi nella vita della Chiesa). L’eventuale offerta per opere di carità o per il culto, che può accompagnare anche una pratica religiosa, non è simonia (cioè fare commercio delle cose spirituali) ma un segno di penitenza e di comunione ecclesiale (facendosi doverosamente carico anche dei suoi bisogni materiali, come era prescritto dal 5° Precetto della Chiesa, e può essere richiesto ancor oggi).

Partendo da questo pretesto, ma in realtà per gravissime incomprensioni dell’autentica dottrina della fede cattolica, il 31.10.1517 emanò 95 enunciati (la cosiddetta “affissione delle 99 tesi” nientemeno che sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg) dando praticamente inizio all’eresia protestante. Informato di questo gravissimo atto, il Papa gli scrisse per chiedergli di ritrattare; ma Lutero bruciò pubblicamente tale Bolla papale. Anche l’imperatore Carlo V gli intimò di rinnegare le sue errate convinzioni teologiche, senza però ottenere nulla. Invece venne protetto dal principe Federico, che gli permise pure di sfuggire alla condanna a morte come eretico. Anzi, Lutero cominciò a girovagare per la Germania predicando ovunque la sua dottrina e ottenendo un forte appoggio dei nobili. L’utilizzo della stampa, inventata da pochi decenni, contribuì ulteriormente alla sua rapida diffusione.

La nascita di questa eresia e di questo terribile scisma provocò assai presto enormi sconvolgimenti sociali. Quando un vasto movimento di contadini, che a partire dalla sua predicazione, si mobilitarono in modo violento per ottenere riforme sociali, Lutero non esitò ad appoggiarne la violenta repressione (si parla di 100.000 morti!) da parte dei principi tedeschi (incitandoli a “trucidare i contadini come cani rabbiosi”).

Molti suoi contemporanei (a partire appunto da suo padre) , così come poi molti storici, sollevarono seri dubbi sulla sua vocazione monastica e sacerdotale. Si trattava infatti di un giovane inquieto, assillato dall’idea di Dio-Giudice. Anche da monaco non abbandonò questa visione pessimistica (che sarà poi del luteranesimo stesso), assillato forse anche dalla paura della dannazione per non riuscire a vivere davvero la castità (esistono studi psicologici anche sulla sua instabilità psichica). Dopo la sua ribellione contro l’autentica dottrina (e non a caso la questione della “giustificazione per sola grazia” è un punto saliente della sua eresia), abbandonò il convento, la vocazione e la stessa Chiesa Cattolica, divulgando ovunque in Germania le sue eresie. Non solo per passione ma per segno di ulteriore ribellione alla Chiesa sposò nientemeno che una monaca. 

L’Inquisizione romana

(Sant’Uffizio)

4.10 – La nascita dell’Inquisizione romana

Di fronte all’impressionante dilagare dell’eresia protestante, che portò quasi un terzo dell’Europa alla separazione (scisma) dalla Chiesa Cattolica e a deformare in modi molteplici e radicali l’autentica dottrina cristiana cattolica (come era stata da Gesù e per 15 secoli!), il 21.07.1542 il Papa Paolo III riorganizza il sistema inquisitoriale medievale e istituisce (con la Bolla Licet ab initio) la Congregazione della Sacra Romana e Universale Inquisizione (detta anche Inquisizione Romana o più comunemente Sant’Uffizio). Proprio per evitare pressapochismi dottrinali o abusi nelle procedure di indagine, il giudizio ultimo sulle questioni teologiche era riservato al Papa stesso.

Il Sant’Uffizio, formato inizialmente da 9 Cardinali con a capo uno di essi, era alle dirette dipendenze dal Papa; e in ultima istanza alcune “inquisizioni” (indagini) venivano per questo discusse direttamente a Roma. Esso sovrintende al Tribunale dell’Inquisizione.

I tempi erano però radicalmente mutati rispetto all’Inquisizione medioevale (erano passati 3 secoli!) e i nuovi poteri locali non si sentivano più nel grembo della Chiesa e ambivano sempre più ad assumere in proprio anche il potere religioso. Non si trattava quindi più di distinguere il potere religioso da quello civile e temporale, ma sempre più la pretesa di quest’ultimo di assorbire sempre più anche il potere religioso. E l’occasione offerta da Lutero e dagli altri fondatori delle Chiese protestanti di separarsi da Roma e dalla guida suprema del Papa, riuscendo in questo modo ad incamerare tutti i beni della Chiesa, fu troppo ghiotta per lasciarsela scappare.

L’Inquisizione Romana, sotto la diretta autorità del Papa, in teoria doveva vigilare sull’autenticità della dottrina cattolica nell’intera Europa; ma di fatto l’opposizione dei regnanti fece sì che poté agire direttamente solo in Italia (e in seguito praticamente solo nello Stato Pontificio), riuscendo a preservarla dall’eresia, mentre ogni tentativo di arginare queste derive dottrinali e scismatiche risultarono pressoché vane in quelle vaste zone dell’Europa centrale e settentrionale dove stavano dilagando. Più efficace risultò certo l’opera di quei sovrani, come gli Asburgo, che vollero e riuscirono a mantenere nell’autentica dottrina e nell’unità della Chiesa Cattolica le terre da loro governate (come possiamo ancor oggi constatare, ad esempio in Austria o nella tedesca Baviera).

“Occorre infine tener presente come nella stessa Italia, tra il ‘400 e il ‘600 in molti territori operasse in contemporanea anche l’Inquisizione spagnola;  e le due obbedienze inquisitoriali si suddividevano il controllo del territorio secondo complessi criteri e si muovevano con dinamiche peraltro assai diversificate” (F. Cardini e C.F. Black).

Per far fronte a tale gravissima situazione, ma in realtà per rinnovare anche la stessa vita cristiana (per questo alcuni storici preferiscono parlare di Riforma Cattolica piuttosto che di Controriforma), fu indetto il Concilio di Trento (1545-1563, il 19° Concilio Ecumenico della Chiesa Cattolica), che oltre a rispondere alle complesse e radicali questioni dottrinali sollevate dai Protestanti, impresse una spinta decisiva anche al rinnovamento della Chiesa, costituendo una decisiva pietra miliare del suo bimillenario cammino. In contemporanea, poi, lo Spirito Santo suscitò nuovi, molteplici e straordinari carismi (ad esempio i già nati Cappuccini e i Teatini), dediti all’evangelizzazione della cultura (soprattutto la Compagnia di Gesù o Gesuiti), alla cura degli infermi (si pensi a quello di S. Giovanni di Dio o Fatebenefratelli) o all’educazione dei ragazzi e dei giovani (Orsoline, Barnabiti e gli stessi Gesuiti, come in seguito gli Scolopi).

d) Le altre Inquisizioni

Abbiamo già più volte osservato come la “leggenda nera” (anticattolica) sull’Inquisizione commetta pure l’errore di attribuire alla Chiesa Cattolica o addirittura al Papa ogni tipo di Inquisizione, senza alcuna distinzione storico-geografica e di competenza. Anzi, viene fatta passare come Inquisizione della Chiesa persino quella “protestante” e persino quella diremmo oggi “laica” (cioè della giustizia penale secolare, quella dei tribunali civili), che furono tra l’altro assai violente e brutali.

Ad esempio Cesare Beccaria, nel suo Dei delitti e delle pene (1764), si riferisce non ai processi dell’Inquisizione ma ai processi degli Stati assoluti.

Con la fine del Medioevo, e specialmente con il sorgere di nuovi Stati nazionali europei, assistiamo anche ad abusi di potere da parte dei regnanti, che giungono ad utilizzare le questioni dottrinali anche per fini politici, così come ad aumentare il  numero delle condanne a morte anche per questi motivi. Su questo però la Chiesa Cattolica e in primis il Papa cercò di vigilare il più possibile, inviando a garanzia della correttezza dell’indagine e del processo dei propri “legati”, come abbiamo visto. Da parte del Papa si cercò di prevenire o condannare in ogni modo la possibilità di abusi o di interferenze del potere locale, anche destituendo gli stessi Inquisitori. Certamente il nuovo contesto storico, specie con la nascita dei nuovi Stati nazionali, come pure la difficoltà delle comunicazioni, in quei secoli lontani, e del “governo a distanza” (da Roma) da parte del Papa, rendevano questo compito assai arduo.

Nei nuovi Stati assoluti dell’Europa moderna, i Tribunali e la giustizia civile e penale furono assai più violenti (e meno rispettosi della vita e dei diritti degli stessi indagati) di quanto non avvenisse nell’Inquisizione Medievale e in quella Romana (tanto denigrata proprio da quelle ideologie che guideranno questi nuovi centri di potere), anzi persino della stessa Inquisizione spagnola.

Se l’Inquisizione spagnola, come abbiamo visto, giunse a condannare a morte (al rogo) neppure il 2% degli imputati (e tra queste condanne neppure tutte furono eseguite), nei Tribunali civili si giunse persino al 50% (50.000 condanne su 100.000 processi)!

Le stesse “Chiese riformate” (come pure la Chiesa anglicana), quasi sempre promosse dai sovrani locali, posero assai spesso in atto una violentissima repressione di coloro che volevano mantenersi nell’autentica dottrina cattolica e nella fedeltà al Papa e alla Chiesa Cattolica, con una sorta di Inquisizione capovolta e assai meno rispettosa della libertà di coscienza e dei diritti degli imputati; così come si passava assai più duramente e speditamente all’esecuzione capitale anche nei confronti delle cosiddette “streghe” (come vedremo in seguito). E ciò è particolarmente paradossale, visto che (come abbiamo ricordato all’inizio) proprio in casa protestante sono nate le prime “leggende nere” sull’Inquisizione, in chiave appunto anticattolica.

4.11 – L’Inquisizione protestante

Come abbiamo osservato, la Riforma protestante dilagò in gran parte dell’Europa centro-settentrionale anche per il forte appoggio dei regnanti locali; ma assai spesso, oltre ad approvare la violenza con cui tali sovrani reprimevano ogni ribellione (abbiamo visto come Lutero approvò lo sterminio compiuto per sedare la rivolta dei contadini: e si parla di 100.000 morti!), venivano brutalmente uccisi molti di coloro, laici e sacerdoti, che volevano rimanere fedeli al Papa e alla Chiesa Cattolica (i “martiri” fatti dalla Riforma furono numerosissimi).

Subito all’inizio della Riforma, gli Anabattisti guidati da Jan Bockelson invasero la città di Münster e per cercare di instaurarvi il loro “Regno dello Spirito” uccisero migliaia di persone.

La Riforma protestante, in base alla sua stessa visione della fede, della natura (della ragione) e della grazia, si oppose anche alla nascita della nuova scienza, così che in mano loro – come essi stessi affermavano – certi scienziati come Copernico o Galileo “avrebbero fatto una brutta fine” (e anche in questo caso è paradossale che proprio da loro ebbe inizio quel pregiudizio secondo cui la Chiesa Cattolica avrebbe perseguitato Galileo e la scienza nascente).

Si veda ad esempio a quanto si è accennato nelle pagine del presente sito dedicate al “caso Galileo” (nella sezione Fede & Cultura e in quella dei Dossier), come le osservazioni sul processo a Galileo al termine di questo documento.

L’uso della pena di morte da parte dei Protestanti fu immensamente superiore rispetto a quella posta in atto dalla Chiesa Cattolica: si pensi che nella sola Germania protestante furono eseguite 25.000 condanne a morte!

Anche a riguardo della questione della “streghe” (v. poi) l’Inquisizione protestante fu assai più pesante e smisurata di quella cattolica (che fu invece “garantista” dei diritti di quelle imputate). Solo a Ginevra i seguaci di Calvino bruciarono oltre 500 streghe.

“La Germania luterana fu teatro di un’intransigenza e di un’atmosfera di sospetto senza precedenti (…) La minima parola era oggetto di interpretazione, il minimo scritto rischiava di passare per eretico se non conteneva le più piatte professioni di ortodossia protestante” (così lo storico francese Paul Arnold).

Anche i Protestanti possedevano un Indice dei libri proibiti, la cui lettura era peraltro considerata peccato. A Zurigo nel 1545 si redisse in tal senso un elenco di 12.000 libri proibiti (Konrad von Gesner, Bibliotheca Universalis), cui si aggiunsero altri 15.000 nella successiva edizione del 1555 (V. Messori).

Una nota sulla persecuzione anglicana contro i Cattolici:

Quando nel 1534 il Re Enrico VIII creò la Chiesa Anglicana, alle proprie dipendenze, vennero perseguitati, uccisi o emarginati tutti coloro che volevano rimanere fedeli al Papa e alla Chiesa Cattolica. Furono così uccise 70.000 persone che si ostinavano a rimanere Cattolici (cioè un numero maggiore a quanti ne avrebbe procurati l’Inquisizione Cattolica nel corso di tutti i secoli!). Fra questi abbiamo anche due eminenti personalità, uccisi nel 1535 a pochi giorni di distanza uno dall’altro, poi proclamati santi e martiri: il vescovo John Fischer (S. Giovanni Fischer, 1469-1535) e il Cancelliere del Re Thomas More (San Tommaso Moro, 1477-1535; fu proclamato santo e martire da Pio XI nel 1935 e il 31.10.2000 fu proclamato da Giovanni Paolo II “Patrono degli statisti e dei politici”) [la loro memoria liturgia si celebra insieme, il 22 giugno].

Thomas More era un laico, che aveva studiato all’università cattolica di Oxford, sposato e padre di 4 figli, che il Enrico VIII, ammirandone l’alta sapienza e moralità, chiamò a corte come proprio Consigliere, Segretario e Cancelliere; ma quando il re creò la Chiesa anglicana e se ne pose a capo, Thomas More preferì essere ucciso dal re pur di non tradire l’autentica dottrina e rimanere fedele al Papa e alla Chiesa Cattolica. Morì così martire, dopo atroci supplizi.

John Fischer, dopo aver studiato all’università cattolica di Cambridge, venne ordinato sacerdote e in seguito fu anche vescovo; fu particolarmente esemplare per carità e per capacità di guida della Chiesa, oltre che per la profonda e indefettibile fede. Essendosi opposto apertamente allo scisma operato dal re e alla sua pretesa di fondare una sua Chiesa (anglicana), fu dapprima imprigionato (il Papa Paolo III, informato, lo creò allora Cardinale!) e poi ucciso dal re.

Un altro esempio, tra le decine di migliaia, della terribile persecuzione attuata dai sovrani inglesi contro tutti coloro che volevano rimanere fedeli al Papa e alla Chiesa Cattolica (l’autentica Chiesa di Cristo) fu poi quello del re Giacomo I Stuart (incoronato nel 1603), che voleva uccidere tutti i preti che rimanessero cattolici. Quando ci fu la “congiura delle polveri” (un attentato contro il re che fu scoperto e sventato ma che fu usato dal re come pretesto per uccidere moltissimi cattolici) il gesuita britannico Henry Garnet fu accusato di essere il capo degli attentatori (in realtà era stato solo il confessore di alcuni dei congiurati, e si rifiutò ovviamente di svelare cose sapute in Confessione), fu impiccato davanti alla Cattedrale di Saint Paul a Londra (1606) e la sua pelle, come era in uso tra loro, fu usata per rilegare il libro in cui era contenuto il verbale del suo processo.

Allo stesso modo, “i <Puritani> di Oliver Cromwell, Lord protettore inglese, eseguirono nell’Irlanda del XVII secolo una vera e propria pulizia etnica a danno dei cattolici” (R. Cammilleri).

I Cattolici in Inghilterra poterono riacquistare la pienezza dei diritti civili solo a metà dell’’800; ma ancor oggi persistono delle limitazioni ad esempio al loro accesso alla vita politica.

5) La procedura dell’Inquisizione cattolica

5.1 – La procedura dell’Inquisizione medievale

La prima preoccupazione della Chiesa, come abbiamo osservato, era (ed è) ovviamente quella della salvezza delle anime; a questo fine era (ed è) doverosa la conservazione, la trasmissione e la difesa dell’autentica dottrina (il buon “deposito” della fede, come dice S. Paolo – cfr. 1Tm 6,20-21 e 2Tm 1,14), condizione di salvezza. Per perseguire questo fine, anche di fronte al pericolo di gravi deviazioni da essa (eresie), la prima risposta della Chiesa era quella di intensificare la predicazione dell’autentica fede. Così, anche per far fronte al dilagare della grave eresia “catara”, abbiamo visto come il Papa stesso pensò anzitutto di sostenere il ministero dei vescovi e dei sacerdoti con una straordinaria predicazione, incaricandone dapprima i monaci (cistercensi) e poi i frati (francescani e specialmente i domenicani). Anche l’istituzione dell’Inquisizione papale aveva anzitutto questo scopo, questa preoccupazione di custodire l’autentica fede, condizione per la salvezza eterna di ogni uomo. E si procedeva in questo modo.

Quando dunque giungeva notizia di una nascente eresia, gli Inquisitori giungevano pubblicamente nella zona interessata e anzitutto promuovevano un anno di predicazione straordinaria per insegnare l’autentica dottrina. Si dava così il tempo e il modo anche agli erranti, che fossero incorsi in eresie per ingenuità o per scarsa conoscenza della vera dottrina, di riconoscere il proprio errore e di tornare nella vera fede cristiana. Colui o coloro che avessero abbracciato o persino insegnato false dottrine (eresie) ma fossero così tornati all’autentica fede non andavano incontro ad alcuna pena; semmai dovevano fare qualche penitenza spirituale, come recita di salmi, confessioni periodiche, al massimo portando per un certo tempo una Croce sull’abito.

Una indagine (“inquisizione”) vera e propria, e poi l’apertura di un ufficiale Processo del Tribunale dell’Inquisizione – che poteva riguardare solo i cristiani e quindi coloro che professassero liberamente la fede cristiana (a cui nessuno era dunque obbligato!) – poteva scattare quando vi fosse stata una specifica accusa di eresia (per accusationem) o quando vi fosse stata una denuncia ben documentata (per denunciationem) in tal senso. Anzitutto si doveva rigorosamente indagare (per inquisitionem) se tale accusa o denuncia fosse di una reale eresia e non ad esempio frutto di incomprensioni o addirittura di calunnie o di rivalità personali o sociali. L’indagato, se ci fosse stato il pericolo di fuga, poteva anche essere arrestato e provvisoriamente imprigionato (come del resto si fa ancora oggi, talora persino in modo disinvolto). Se però l’accusato aveva famiglia a carico, veniva lasciato a casa, perché potesse provvedere ai suoi cari con il proprio lavoro (in questi casi era previsto uno sconto di pena anche qualora fosse poi risultato colpevole). Onde evitare sotterfugi o scorrettezze, gli interrogatori erano pubblici (tutti potevano ascoltare) e normalmente verbalizzati alla presenza di un notaio (assoluta novità giuridica per l’epoca) – Verbali che dovevano essere conservati (e che sono conservati e consultabili ancor oggi negli Archivi dell’Inquisizione, quando non furono trafugati, ad esempio da Napoleone, o distrutti dagli anticlericali per eliminare le prove degli autentici processi) – e dovevano essere svolti alla presenza del Vescovo locale.

L’Inquisitore papale non poteva agire in modo arbitrario. Vennero per questo messi a punto persino dei Manuali per l’inquisitore – celebre fu quello di Bernard Gui (già citato e tanto vituperato dalla leggenda nera anticattolica) – che ne regolassero severamente l’attività (persino con l’elenco delle domande da fare). E se l’Inquisitore non si fosse comportato correttamente nella procedura veniva deposto (come nel caso del francescano Simone Bulgaro del XIII sec., che fu rimosso dal Papa stesso).

L’imputato non solo godeva del diritto di difendersi, ma (pare cosa inedita nella storia del diritto) poteva addirittura avvalersi di un avvocato per la propria difesa; e se non se lo poteva permettere gli veniva assegnato d’ufficio.

Se non si trattava di vera eresia, ovviamente l’imputato era assolto, per non avere commesso la colpa, e risultava quindi anche ufficialmente e dottrinalmente ortodosso (cioè nella giusta dottrina) anche di fronte all’opinione pubblica, che quindi si era sbagliata nel ritenerlo eretico (ricordiamo come il popolo, se non ci fosse stata l’Inquisizione, sarebbe stato normalmente assai più sbrigativo e violento nei confronti del presunti eretici o per le cosiddette streghe, considerati anche socialmente pericolosi).

Circa la possibilità d’uso della tortura (tormentum) per ottenere deposizioni, si veda poi in seguito. Comunque, contrariamente a quanto ha divulgato la leggenda nera e a quanto viene presentato da presunti “musei della tortura”, essa era prevista solo in casi rarissimi e gravissimi, a particolari condizioni, e mai in modo particolarmente cruento.

Quando invece fosse risultato effettivamente eretico, l’imputato poteva però ritrattare la propria posizione (abiura) e tornare (per aver capito meglio l’autentica dottrina o per pentimento per averla tradita) nella vera fede. In tal caso veniva rimesso subito in libertà e il Processo terminava immediatamente.

In caso non riconoscesse il proprio errore o non se ne pentisse, l’imputato (eretico) veniva condannato; ma le pene erano però proporzionate in base alla gravità della colpa. Nei casi gravi può esserci anche la reclusione in qualche convento o la confisca dei suoi beni. Nel caso più grave (e raro), qualora cioè l’eretico avesse non solo gravemente deformato un punto fondamentale della fede (grave eresia) ma con la sua predicazione avesse trascinato altri nel suo errore, quindi con danno perfino eterno per molte anime, e non avesse dato alcun segno di conversione e di ritorno alla verità (“pertinacia nel rifiuto”), allora la sentenza lo dichiarava ufficialmente colpevole di grave eresia. E a questo punto poteva anche abbandonarlo al “braccio secolare” (cioè al potere civile), che eseguiva anche la pena di morte (di solito con il “rogo”), in quanto il reo veniva considerato anche socialmente dannoso e pericoloso.

“Gli studiosi dell’Inquisizione medievale hanno calcolato che in tutto l’arco dei secoli in cui ha operato, nei territori che vanno dal sud della Francia alla Germania, dalla Spagna all’Inghilterra e anche in alcune zone d’Italia, tutte le sentenze capitali non siano state più di un migliaio” [L. Negri].

A testimonianza dell’equilibrio e della mitezza dell’Inquisizione medievale basti pensare che nella seconda metà del XIII secolo solo 1,1 % dei processi si chiude con la pena capitale e il 15% si chiude con la confisca dei beni.

5.2 – La procedura dell’Inquisizione Romana

Quando il Papa Paolo III nel 1542 istituì di nuovo l’Inquisizione, questa volta soprattutto per far fronte alla gravissima eresia protestante che stava dilagando in Europa, si mantenne e si perfezionò ulteriormente la procedura usata già nell’Inquisizione medievale. Anch’essa riguardava sempre e soltanto i cristiani, al fine di garantirne appunto l’autentica fede; non poteva quindi occuparsi dei non cristiani e tanto meno obbligare alla fede cristiana. La ripresa dell’Inquisizione Papale (Romana) era stata pensata per poter indagare e agire nell’intera Europa, in gran parte attraversata appunto dalle multiformi eresie protestanti; ma, come abbiamo più sopra osservato, la nuova situazione politica europea (l’atteggiamento ostile di molti sovrani nei confronti del Papa e della Chiesa Cattolica, onde poter esercitare un potere sempre più assoluto, a tal punto da pretendere di inglobare persino lo stesso potere spirituale della Chiesa, oltre ad incamerarne i beni) impedì di fatto all’Inquisizione Romana di agire se non in Italia (e neppure ovunque), mantenendola indenne dall’eresia e dalle tristi lotte che dilanieranno invece l’Europa per secoli.

L’Inquisizione romana riuscì comunque, specie in Italia, a vigilare sui Tribunali provinciali dell’Inquisizione, garantendo il più possibile la correttezza della procedura e vigilando perché si applicasse in modo uniforme in tutto il territorio, senza cedere alle pressioni locali.

Oltre dunque a quanto già detto a riguardo dell’Inquisizione medievale, la cui corretta procedura fu sostanzialmente mantenuta e perfino perfezionata, possiamo osservare quanto segue.

5.3 – L’indagine

L’Inquisitore, giunto sul luogo dove viveva l’imputato e comunque dove era sorta l’eresia, si informava presso il Vescovo e la popolazione circa la questione dottrinale su cui doveva indagare (editto di fede). Veniva in genere concesso un mese di tempo (tempo di grazia) per ricevere denunce, ascoltare confessioni, interrogare a piede libero i sospettati.

L’indagine prendeva le mosse a partire da una denuncia scritta e giurata (o anche da testimonianze orali, nel qual caso venivano ascoltate separatamente e se fossero state in contraddizione tra loro venivano immediatamente scartate). L’Inquisitore doveva porre un’estrema precisione nel vagliare i capi d’accusa: veniva ritenuta degna di fede solo la testimonianza di persone fidate, mentre erano scartate a priori testimonianze accusatorie ritenute non fondate. Per chi avesse testimoniato il falso contro qualcuno (calunnia) erano previste infatti pene severissime. Quando l’accusa era di eresia, la deposizione dell’imputato era sempre ritenuta degna di fede: bastava cioè che negasse ufficialmente l’eresia per essere ritenuto innocente (non così ovviamente per gli altri delitti, in cui si procedeva in base al diritto comune o canonico).

L’imputato godeva poi del diritto non solo di difendersi, ma persino di poter rifiutare un giudice e i testimoni indicati, se poteva dimostrare che erano suoi nemici o prevenuti contro di lui. In tal caso erano proprio i suoi accusatori ad essere contestati e persino controinterrogati.

Come nell’Inquisizione medievale, era obbligatoriamente richiesta la presenza di un Notaio, che doveva redigere con cura i Verbali di tutte le fasi del Processo (a cominciare dalla trascrizione delle accuse, deposizioni, testimonianze). Nella verbalizzazione delle accuse dovevano essere presenti anche due testimoni; il tutto avveniva sotto giuramento, con gravi pene per chi avesse testimoniato il falso; e nessuno poteva poi riferire ad altri ciò di cui era venuto a conoscenza, pena la scomunica. Una copia del Verbale delle accuse veniva consegnata quindi allo stesso imputato (usando persino la delicatezza di venire redatta anche in lingua volgare, per poter così essere forse meglio compresa), al fine di permettergli di conoscere dettagliatamente le accuse rivoltegli e organizzare meglio la propria difesa (anche per iscritto). L’imputato era quindi in grado di possedere la documentazione esatta e completa di tutte le accuse che lo riguardavano, oltre a poter ascoltare direttamente i suoi accusatori e chiamare altri testimoni in sua difesa.

A questo punto, se l’imputato poteva dimostrare l’inconsistenza degli indizi contro di lui veniva subito assolto. Se era incorso in eresia per ignoranza, una volta preso atto della verità e ritrattato l’errore, veniva ugualmente subito assolto. Veniva immediatamente graziato (editto di grazia) anche se era consapevolmente incorso in eresia, ma spontaneamente si presentava, confessava il suo errore, vi abiurava (e denunciava anche i suoi complici se ne avesse avuti). Aveva un intero anno di tempo per farlo (tranne che nei casi più gravi e urgenti).

L’imputato veniva arrestato solo se si temeva che potesse fuggire (cosa che si fa ancor oggi, e in certi casi persino con grave disinvoltura). Si doveva avere però estrema prudenza nell’arrestare e nell’incarcerare un presunto colpevole: si doveva usare ad esempio una particolare clemenza per chi si presentava spontaneamente; se poi si trattava di un religioso (ed era la maggior parte dei casi!) tale garanzia era affidata semplicemente al suo superiore (il che significava praticamente restare in convento); se invece l’imputato aveva famiglia a carico veniva lasciato a casa perché potesse così provvedere ai suoi cari con il proprio lavoro.

5.4 – Il Processo

Il primo livello del Processo si svolgeva nell’area dove l’imputato viveva; e a questo livello non si poteva normalmente infliggere alcuna condanna definitiva.

L’imputato aveva diritto di avvalersi di un avvocato difensore, scelto fra tre da lui proposti, e nel caso non potesse permetterselo a causa delle proprie condizioni economiche poteva averne uno pagato dal Tribunale stesso. L’avvocato non poteva ovviamente entrare nel merito della questione teologica, se cioè una dottrina fosse autenticamente cattolica oppure eretica, ma solo difendere l’imputato dall’accusa di eresia.

Il Processo non doveva mai essere sbrigativo, ma neppure eccessivamente lungo (è in genere rapido ed efficiente), nella consapevolezza che una procedura lunga poteva danneggiare l’imputato ed essere gravemente infamante (se poi addirittura alla fine risultasse innocente) 

[quanto sarebbe ancor oggi auspicabile e doveroso anche in Italia!].

Superato il primo livello, il Processo doveva essere trasferito e rifatto a Roma (e ugualmente i tempi non dovevano essere lunghi). Lì veniva istituita una Giuria, composta anche da 50 probi viri, che analizzava tutti gli atti processuali e dava il proprio parere sulla sentenza e la pena da infliggere. Se sorgeva una contraddizione di testimonianze, il Processo ricominciava da capo. Presa visione degli Atti processuali e ascoltato il parere della Giuria, il giudice dell’Inquisizione emetteva quindi la sentenza, dando il proprio giudizio sui fatti e, in caso di condanna, infliggendo le pene relative (ma aveva anche facoltà di ridurle).

L’imputato risultato innocente veniva ovviamente assolto. Se invece risultava effettivamente eretico, si distinguevano queste possibilità, già individuate: se era caduto in eresia per ignoranza, una volta chiarito l’errore e fosse tornato nella retta fede, veniva rilasciato. Anche se si riconosceva colpevole, ma poi abiurava dal proprio errore, veniva ugualmente rilasciato con l’obbligo di porre in pratica lievi penitenze. Se era un laico, cioè un uomo con famiglia a carico, riceveva pene con particolare clemenza. Se invece si ostinava nel proprio errore (era recidivo), e tale eresia fosse stata particolarmente grave e persino socialmente pericolosa, veniva consegnato al “braccio secolare”, ovvero alla giustizia penale (secolare) che applicava le pene previste dalle leggi civili contro l’eresia (normalmente era previsto il rogo). Non tutte le condanne a morte venivano di fatto eseguite; tanto più che fino all’ultimo momento bastava che il condannato abiurasse dalla propria eresia per essere graziato.


La straordinaria correttezza giuridica dell’Inquisizione, innovativa e ad autentica garanzia dell’imputato.

Oggi molti storici (anche laici) riconoscono ormai apertamente come tale procedura processuale – al di là della questione teologica, allora sentita rilevante non solo per la vita ecclesiale ma anche per quella sociale (e che la sensibilità moderna fatica invece a cogliere) – con tutte queste innovazioni e garanzie, fosse non solo esemplare ma rappresenti un enorme passo avanti nella storia dello Diritto, a quel tempo invece altrove lontanissimo anche solo dall’idea di una tutela dell’inquisito.

Contrariamente alla giustizia penale secolare, caratterizzata allora assai spesso da arbìtri ed esecrabili violenze, il Tribunale inquisitoriale era assoggettato invece a precise norme procedurali, che tutelavano l’inquisito e prevedevano un Processo in fondo esemplare (contemplando persino punizioni anche molto dure per i giudici che avessero errato o anche solo eccedono nei loro poteri).

“A confronto dei delitti comuni e di come venivano trattati gli imputati nella giustizia secolare, qua siamo di fronte ad un modello di diritto processuale” (L. Negri).

Tutte quelle norme che il Diritto penale secolare introdurrà infatti molto tempo dopo (ad esempio in Inghilterra si cominciò ad adottarle solo nei primi decenni dell’Ottocento), l’abbiamo già in atto nell’Inquisizione Romana (anzi, moltissime sono addirittura già nell’Inquisizione Medievale)!

Insomma, studiando obiettivamente l’Inquisizione Romana (come ha fatto ad esempio John Tedeschi, il più lucido e aggiornato storico del tema) e “uscendo finalmente dal quel macabro alone di mistificazioni sviluppato dalla “leggenda nera” illuministica-massonica-marxista, si evince che essa non fu quel Tribunale arbitrario, quel tunnel degli orrori o quel labirinto giudiziario da cui era impossibile uscire, che normalmente ci viene descritto; anzi, non è temerario affermare che essa ha rappresentato, nel fosco quadro della giustizia europea dal XVI al XVIII secolo, una vera e propria oasi di modernità, di rispetto dell’imputato, di rigore procedurale, di moderazione, di trasparenza e di correttezza, di collegamento fra organi periferici e organo centrale di controllo, che costituisce una geniale anticipazione di norme garantiste che la giustizia laica raggiungerà solo molto più tardi” (John Tedeschi, Il giudice e l’eretico, Studi sull’Inquisizione Romana, Vita e pensiero, 2003).

“Storici più seri (come Prosperi, Ginzburg, Bennassar, Tedeschi, Merlo, Firpo, Musca) cercano anzitutto di collocare la vicenda nell’ottica anche giuridica del tempo. Essi sono d’accordo nel sostenere che, se come tutti gli Istituti giudiziari del mondo anche l’Inquisizione commise senza dubbio errori e delitti, i suoi processi furono però condotti con equità e rigore. La repressione dell’eresia fu certamente, a partire dal XII secolo, un obiettivo del Papato, ma condiviso sostanzialmente dalla società civile del tempo; tanto è vero che nessun governo “laico” del tempo (fino al ‘700) ostacolò mai questi processi (lo fecero di più certi vescovi), anzi cercarono di condizionarli, collaborando all’esecuzione delle pene” (così lo storico F. Cardini).

5.4.1 – Una nota sull’uso della “tortura”

Fino al XIII secolo l’uso della tortura (tormentum) era escluso dal Diritto Canonico. Innocenzo IV nel 1252 (bolla Ad extirpanda) ne ammise la possibilità, ma ne disciplinò rigorosamente l’uso: poteva essere usata solo in casi limite (solo quando i reati fossero stati gravissimi e gli imputati fortemente indiziati), non doveva durare più di 15 minuti e non doveva essere ripetuta, non doveva giungere allo spargimento di sangue o ad amputazioni (nessuno poteva subire offese tali da impedirne il ritorno alla vita normale, anche lavorativa), tanto meno a incorrere in pericolo di morte; anzi, doveva essere presente un medico. Inoltre la deposizione sotto tortura (anch’essa regolarmente verbalizzata, anche nei tempi e nei modi) non aveva valore se non veniva confermata dall’imputato in un secondo tempo (dopo almeno due giorni) e in condizioni normali. Anche Giovanni XXII (1249-1334) dichiarò lecita la tortura degli eretici, ma in quei casi limiti e a quelle condizioni. Così in casi estremi e con questi limiti se ne avvalse talora l’Inquisizione medievale.

Il domenicano Nicholas Eymerich, autore di un noto e tanto vituperato Manuale dell’Inquisitore (1376), la sconsigliava; poteva essere ammessa solo non in casi gravissimi e se non fossero stati utili altri mezzi. Non poteva comunque essere usata sui minori, sugli anziani e sulle donne incinte.

Molti studiosi laici oggi concordano anzitutto sul fatto che il ricorso alla tortura ci fu nella misura in cui era un espediente ordinariamente usato a quel tempo nei tribunali laici. “Questi strumenti furono impiegati non solo dall’Inquisizione ma praticamente da tutti gli altri sistemi giudiziari d’Europa: ancora nel XVI secolo erano parte integrante delle procedure, fatto del quale nessuno si scandalizzava. È tuttavia mia convinzione che le future ricerche dimostreranno che essi furono usati con minore frequenza e con più riguardo per la dignità umana nei tribunali del Sant’Uffizio che altrove” (J. Tedeschi, op. cit.). Anzi, “contrariamente a tutte le istituzioni giudiziarie del tempo, l’Inquisizione non usava normalmente la tortura” (lo storico Henningsen).

Queste limitazioni erano invece assenti nella ben più spietata e non regolata giustizia secolare. Dobbiamo quindi calarci nella mentalità del tempo anche riguardo a questo metodo estremo per conoscere la verità ed evitare danni morali e sociali. Ma a differenza dei giudici civili, gli Inquisitori cattolici ricorsero alla tortura in casi rarissimi e secondo i limiti sopra indicati.

Ad esempio: a Tolosa su 656 processi tenuti dal 1309 al 1323 fu utilizzata una sola volta; a Valencia (Spagna) su 2.354 processi tenuti dal 1478 al 1530 fu utilizzata solo in 12 casi (R. Cammilleri).

L’Inquisizione medievale ricorse quindi alla tortura in casi rarissimi ed estremi, e secondo quei limiti e quelle modalità. Poi tale mezzo venne presto abbandonato, già verso la metà del XIV secolo, e quindi non fu mai usato dall’Inquisizione Romana. I Tribunali secolari (laici) usarono invece tranquillamente la tortura fino agli inizi del XIX secolo!

[Se poi paragoniamo anche questo metodo alle violenze, torture e uccisioni operate dai Tribunali laici che hanno fatto seguito alle moderne rivoluzioni, da quella francese a quella bolscevica, allora le sproporzioni diventano enormi … e non si capisce perché proprio dai loro eredi culturali vengano ancor oggi tanto sdegno e calunnie contro l’Inquisizione cattolica]. 

Dunque anche sulla tortura – che la Chiesa Cattolica avrebbe usato abitualmente nei suoi Tribunali (addirittura per obbligare alla fede!), con ferocia, sadismo e terrificanti violenze – si è diffusa una leggenda nera, cioè gravi e calunniose menzogne storiche, che ancor oggi circolano, anche con l’uso di romanzi, film e persino presunti “musei”, e che purtroppo molti credono (persino molti cattolici).

“I cosiddetti <Musei della tortura>, presenti in molte città, sono in realtà dei baracconi antistorici, così come è antistorica la leggenda sugli <orrori dell’Inquisizione>, scritta ad esempio da C. Invernizzi o da Bagent e Leight (The Inquisition), che spesso si rifanno alla polemica anticattolica e antistorica di Lea (History of Inquisition)” (così lo storico F. Cardini).

5.5 – Le pene

Abbiamo osservato come non fosse prevista alcuna pena se l’errante era incorso in eresia per ignoranza e se, una volta ricevuto il giusto insegnamento, tornava alla retta dottrina. Se poi fossero anche stati colpevoli, cioè consapevoli di aderire ad una fede deformata, ma poi tornavano alla Verità venivano rimessi in libertà con il solo obbligo di compiere qualche lieve penitenza spirituale (preghiere, pellegrinaggi, digiuni, elemosine per i poveri, portare la Croce sull’abito).

Le pene hanno soprattutto un valore medicinale (ad delinquentis correctionem), per spingere l’imputato a rientrare nell’autentica dottrina, anzitutto per la salvezza della sua stessa anima.

Gli Inquisitori avevano poi la facoltà di attenuare o aggravare, commutare, condonare o persino sospendere del tutto la pena.

Per le colpe più gravi era prevista anche la pena del carcere (questo il significato del termine “immuratio”), ma solo per brevi periodi. In genere la detenzione poteva essere di un anno. Quando si parlava del massimo della pena di detenzione, cioè la condanna “perpetua e irremissibile”, si trattava di 5 anni di detenzione se c’era pentimento o di 8 anni quella “irremissibile”. L’ergastolo non esisteva (infatti è un’invenzione settecentesca dell’Illuminismo!). È inoltre contemplata anche la semi-libertà, la licenza per buona condotta e persino la possibilità di lavorare nei campi. I detenuti anziani o ammalati, poi, potevano essere trasferiti nella loro casa (o in convento se erano frati o suore).

Se poi entrassimo in altri particolari, come ad esempio le condizioni delle carceri romane del Sant’Uffizio nel XVI secolo, peraltro usate con grande parsimonia, potremmo considerarle persino  confortevoli (e assai migliori persino delle attuali carcere italiane!): le celle erano spaziose e luminose (almeno una volta al mese dovevano essere visitate da un cardinale, il quale doveva controllare anche il buon trattamento del detenuto – così anche lo storico L. Firpo), con cambio delle lenzuola due volte la settimana, con la possibilità di utilizzare libri (e testi utili per la propria difesa) come pure di scrivere (anche memorie e quant’altro fosse utile per la propria difesa), un vitto discreto con possibilità di bere vino (o persino birra se uno la preferisse – a un olandese che chiedeva birra della sua patria e che a Roma non si trovava, fu data una somma di denaro per farsela mandare dall’Olanda – R. Cammilleri), e godere di capi di vestiario personalizzati e puliti (così l’insospettabile storico laico Luigi Firpo, che studiò accuratamente la questione).

Facciamo alcuni degli innumerevoli esempi possibili, per osservare come il Tribunale dell’Inquisizione fosse tutto sommato assai clemente anche nei casi più seri. E stiamo parlando dell’Inquisizione medievale, che doveva affrontare, come abbiamo visto, l’eresia catara degli Albigesi. Ad esempio, il 13.03.1253 a Bernard Barrel, condannato come eretico, fu concesso di uscire di galera per curarsi e non tornare che quindici giorni dopo la guarigione. Il 18.11.1254 la moglie di Guillaume Hualgnier, Rixenda, ottenne di andare a partorire a casa per rientrare un mese dopo il parto. Il 3.09.1252 a Brice da Montréal l’inquisitore di Carcassonne concesse la commutazione della prigione in un pellegrinaggio in Terrasanta; ma 4 anni dopo il prescritto pellegrinaggio non era ancora stato effettuato; allora (27.06.1256) venne commutato in un’ammenda di 50 soldi perché ormai il condannato era troppo anziano per viaggiare. Informazioni del genere si trovano nell’opera del Lea, il quale deve ammettere che “questa facoltà di attenuare le sentenze era esercitata frequentemente”. Sempre Lea dice: “Nel 1328 in una sola sentenza 23 prigionieri vennero rilasciati e le loro penitenze commutate nel dover portare croci (cucite sugli abiti), in pellegrinaggi e altro. Nel 1329 un’altra sentenza di commutazione pronunciata a Carcassonne rimise in libertà 10 penitenti; ma questa indulgenza non era affatto una caratteristica particolare dell’Inquisizione di Tolosa (anzi, lì era proprio la zona più difficile, quella appunto dei Catari, dove lo scontro con l’eresia era quindi il più virulento)”.

5.5.1 – La pena di morte

Fino al XII secolo la pena di morte non veniva contemplata dai Tribunali ecclesiastici, anche se lo era invece ovunque.

Il Papa Alessandro II (1061-1073) escluse la pena di morte e ogni effusione di sangue; così Alessandro III e il  Concilio Lateranense III (1179) [L. Negri].

Come abbiamo visto, con la nascita di eresie (come quella catara) che interessavano non solo le questioni dottrinali ma risultavano anche socialmente pericolose, e quindi con la nascita dell’Inquisizione medievale, si giunse a infliggere anche questo massimo della pena, sia pur assai raramente. Inoltre il Tribunale dell’Inquisizione (cattolica) non si occupava che della parte dottrinale, cioè se vi fosse davvero tale eresia; se poi concludeva il suo rigorosissimo processo con l’accertamento effettivo della gravissima eresia e qualora il reo (eretico) non desse segni di ravvedimento e di pentimento, veniva giudicato colpevole e in estremi rari casi veniva giudicato degno della massima pena, cioè quella di morte. A questo punto il compito dell’Inquisizione era terminato; non le spettava infatti l’esecuzione della pena, che era invece compito del potere civile. Per questo, in questi casi limite, si diceva “abbandonare al braccio secolare”, per l’applicazione delle pene previste dalle leggi civili contro gli eretici. Ai giudici ecclesiastici (Inquisitori) non competeva che il giudizio teologico; l’esecuzione della pena era deputata al potere civile (semmai il giudice ecclesiastico si raccomandava di non usare sul reo inutili supplizi).

Si riteneva la pena di morte lecita e persino doverosa non solo per la gravità della colpa, quindi come giusta pena in riferimento al gravissimo danno arrecato (con al sua dottrina l’eretico poteva arrecare danni eterni all’anima di migliaia e perfino di milioni di persone; ma causava anche gravissimi danni sociali), ma quando si presumeva che tale danno spirituale e sociale fosse ormai non più altrimenti limitabile, che la situazione fosse cioè ormai irrimediabile, continuando a causare danni spirituali, morali e civili all’intera società e persino alla stessa anima dell’eretico.

Si trattava a questo punto di esercitare i diritto alla “legittima difesa” da parte dell’intera società; ma aveva sicuramente anche uno scopo deterrente (e per questo l’esecuzione della condanna era sempre pubblica, come del resto processo). Si pensava persino che il rogo potesse essere un limite ai futuri peggiori danni per la stessa anima del reo e una sua stessa purificazione (quasi un “purgatorio” in questa vita, per ridurre le fiamme di quello futuro o per eliminare quelle eterne dell’inferno). Infatti, tale pena suprema, che apparentemente toglieva al reo anche la possibilità di redenzione, in realtà  poteva essere considerata una “espiazione” per la sua stessa anima, specie se giungeva a rivolgersi a Dio con pentimento e ad offrire espressamente quel sacrificio unitamente a quello di Cristo e in espiazione dei propri peccati. Per questo tutte le persone pie della città erano coinvolte per ottenerne il pentimento o comunque la salvezza della sua anima; e così venire salvato o dalla pena terrena o almeno dalla pena del fuoco eterno dell’inferno (infinitamente più terribile del “rogo” terreno). Per ottenere il pentimento e la salvezza eterna del reo, venivano pure indette assemblee pubbliche di preghiera; e capitava spesso che l’imputato, comunque assistito nella sua anima da un sacerdote presente, si convertisse, anche mosso proprio dalla pietà di tante buone persone.

La pena del “fuoco” (il rogo), pur raccapricciante, aveva dunque anche un significato simbolico. Veniva infatti considerata particolarmente adatta a chi si rifiutava fino alla fine di riconoscere la propria eresia: la distruzione del corpo col fuoco era come se quel corpo fosse affetto da una malattia contagiosa (come si cercava di bloccare o disinfettare dalla peste o altre malattie contagiose) e poteva giungere a evitare per l’anima le ben più terribili fiamme dell’Inferno o del Purgatorio.

La condanna “al rogo”, stabilita già dall’antico Codice di Giustiniano (imperiale, del VI secolo, che funge da modello), fu per secoli la più diffusa condanna a morte nella società civile europea.

5.5.1.1 – Una nota sulla “pena di morte”

Come abbiamo già ricordato altrove nel Sito [Dottrina sociale, n. 33.1], la pena di morte, come caso estremo di punizione del reo e di “legittima difesa” della società, non è per sé contraria alla dottrina cristiana, anche se oggi considerata di fatto impraticabile, anche per la possibilità di difendere la società con pene meno cruente (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2266-2267).

Catechismo della Chiesa Cattolica (1992):

2266. Corrisponde ad un’esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole [cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 64, a. 7, c: Ed. Leon. 9, 74].

2267. L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” [cfr. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 56].

Così nel relativo Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (2005):

468. A che serve una pena? Una pena, inflitta da una legittima autorità pubblica, ha lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa, di difendere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, di contribuire alla correzione del colpevole (CCC, 2266).

469. Quale pena si può infliggere? La pena inflitta deve essere proporzionata alla gravità del delitto. “Oggi,a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere il crimine rendendo inoffensivo il colpevole, i casi di assoluta necessità di pena di morte «sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Evangelium vitae). Quando i mezzi incruenti sono sufficienti, l’autorità si limiterà a questi mezzi, perché questi corrispondono meglio alle condizioni concrete del bene comune, sono più conformi alla dignità della persona e non tolgono definitivamente al colpevole la possibilità di redimersi (CCC, 2267).

Potremmo in proposito forse persino domandarci se sarebbe stato poi così ingiusto e deprecabile condannare a morte ad esempio un Marx o un Hitler, già quando andavano predicando le loro dottrine; non avremmo in tal modo risparmiato all’umanità del XX secolo immani tragedie, come mai si erano registrate nella storia, violenze inaudite sulle popolazioni di interi Paesi, decine di milioni di morti e in fondo persino le due guerre mondiali?

La pena di morte nella modernità e nelle società contemporanee.

Anche se, come abbiamo ricordato, un serio giudizio storico non deve proiettare sul passato (tanto più del lontano Medioevo) i criteri e la sensibilità moderna. Tra l’altro, la pena di morte viene tuttora applicata, e non solo in regioni incivili del mondo, ma persino in Paesi che consideriamo democrazie particolarmente moderne e avanzate (come in alcuni Stati degli U.S.A.). In molti Paesi islamici è tuttora (ingiustamente) comminata non solo agli islamici considerati blasfemi e immorali, ma spesso obbligando alla loro fede i seguaci di altre religioni (cosa che invece il cristianesimo e l’Inquisizione Cattolica non ha mai contemplato). Se poi consideriamo i Paesi comunisti (anche di oggi, come la Cina) vediamo come la pena di morte venga usata migliaia e migliaia di volte a chi si oppone alla dottrina del Partito! Se poi guardiamo come le moderne rivoluzioni l’anno utilizzata in un numero immensamente superiore che nel Medioevo (dalla ghigliottina francese – usata infinite volte nel XVIII secolo e abolita in Francia solo nel 1981! – ai campi di sterminio e gulag del sec. XX!), risulta davvero incredibile come molte false accuse alla Chiesa (anche sui “roghi” della Inquisizione) vengano ancor oggi proprio da coloro che non nel Medioevo ma nei secoli scorsi e persino di recente hanno compiuto questi crimini, anche solo per fini politici, e non abbiano mai dato (essi o gli eredi delle loro ideologie) segni di pentimento (mai un loro “mea culpa”, mentre applaudono ironici ai presunti e tardivi “mea culpa” della Chiesa Cattolica).

Se poi andassimo a parlare dell’”aborto”, ci accorgeremo come oggi venga addirittura considerato un diritto inviolabile la spietata “condanna a morte” (anche con metodi cruenti e dolorosissimi per il feto, come oggi è certificato anche scientificamente) di decine di milioni di bambini, che sono i più innocenti, deboli e indifesi (senza possibilità di parola, di avvocati e di processi) degli uomini.

5.5.2 – Quante condanne effettive?

Proprio sul numero effettivo delle condanne a morte, conseguenti al giudizio più grave emesso dalla Inquisizione cattolica, la leggenda nera anticlericale ha costruito le sue più antistoriche e fantasiose calunnie, oltre ad attribuire alla Chiesa ogni tipo di processo, anche di altre Inquisizioni, persino quelli del potere civile.

In realtà le condanne a morte conseguenti all’Inquisizione Cattolica furono assai meno di quelle emerse dai Tribunali secolari (per non parlare poi quelle inflitte da essi nell’epoca moderna, che sono di decine di milioni!), ma anche meno di quelle delle Chiese protestanti. Insomma, rispetto alle condanne inflitte proprio da parte di coloro che hanno creato e diffuso questo mito anticattolico e che tuttora se ne scandalizzano tanto e ne fanno una potente arma denigratoria contro la Chiesa!

Eppure lo storico serio deve rifarsi a dei documenti autorevoli, non a delle leggende. E sui processi dell’Inquisizione, come abbiamo più volte ricordato, abbiamo gli effettivi Verbali (oggi accessibili a tutti gli studiosi). 

Come abbiamo già osservato, il Processo inquisitoriale si concludeva quasi sempre con condanne leggere e spesso anche col “non luogo a procedere”. Gli storici più autorevoli ammettono che i Processi terminavano assai raramente con una condanna la pena capitale. C’erano poi infatti innumerevoli modi per evitarla e coglieva praticamente solo l’eretico che pubblicamente non volesse sentire ragioni e si ostinasse ad essere tale o fosse recidivo. Solo allora poteva essere condannato e consegnato al “braccio secolare”, ovvero alla giustizia penale secolare che applicava le pene previste dalle leggi civili contro l’eresia (il rogo). Ma anche in questo caso estremo, si operava ancora in ogni i modi per evitare l’esecuzione, facendo intervenire parenti, amici, persone prestigiose, perché l’eretico si ravvedesse e gli fosse risparmiato il rogo.

Avevamo già osservato come l’Inquisizione Medievale, “in tutto l’arco dei secoli in cui ha operato, in tutti i territori che vanno dal sud della Francia alla Germania, dalla Spagna all’Inghilterra e anche in alcune zone d’Italia, non inflisse più di 1.000 sentenze capitali” [L. Negri].

Dagli archivi storici del Tribunale di Tolosa, proprio quello che nei secoli XII-XIV dovette far fronte alla terribile eresia catara, risulta che le condanne a morte furono solo l’1% delle sentenze emesse. Il principale Inquisitore di detto Tribunale, il domenicano Bernard Gui (tanto denigrato anche negli attuali notissimi romanzi come Il nome della rosa di U. Eco, ma in realtà considerato “uno dei più notevoli storici del ‘300”), su centinaia di casi “rimise al braccio secolare solo 42 persone”.

Persino l’Inquisizione spagnola, presentata sempre come terribilmente violenta, ma che abbiamo osservato non essere tra l’altro soggetta direttamente alla Chiesa, alla prova della reale documentazione storica si rivela invece mite e scrupolosa.

In 356 anni l’Inquisizione spagnola emise 11/15.000 condanne (R. Cammilleri).

Tra il 1540 e il 1700 l’Inquisizione spagnola dovette occuparsi di 44.000 casi (Processi). Per lo storico G. Henningsen solo l’1% di essi si concluse con la condanna a morte (questo storico vagliò in totale 150.000 processi , trovando solo l’1,5% di condanne). Anche secondo lo storico J. Tedeschi la pena capitale fu comminata a 820 imputati (meno appunto dell’1,9% dei casi). Se includiamo anche altri periodi, per un totale di 50.000 processi, raggiungiamo 950 condanne a morte (pari sempre all’1,9% degli imputati). Teniamo poi presente che non sempre tali condanne giungevano di fatto all’esecuzione (bastava dichiararsi pentiti anche alla fine, già nelle mani del boia, perché venisse concessa la grazia). Ci sono studiosi (come l’autorevole storico A. Borromeo) che affermano come i roghi effettivi e documentati fossero stati solo 59 !In tutto il sec. XVII il Tribunale di Toledo rilasciò ad esempio 1/3 degli imputati senza alcuna sanzione. Persino quando storici come E. Peters parlano di 3000 condanne a morte da parte dell’Inquisizione spagnola, includendo anche il XVIII e XIX secolo, riconoscono che comunque “si tratta di un numero assai inferiore a quello inflitto dagli analoghi tribunali secolari”.

L’Inquisizione portoghese, come avevamo osservato, in 3 secoli di storia inflisse solo 4 condanne a morte.

Se poi parliamo dell’Inquisizione Romana, quindi alle più dirette dipendenze dal Papa, allora le condanne a morte diventano effettivamente irrisorie: in 5 secoli solo 36A Roma ci fu poi un solo caso, quello di Giordano Bruno nel 1600 (v. poi).

Ad esempio, “il tribunale di Aquileia-Concordia, su 1000 processi tenuti tra il 1551 e il 1647, inflisse solo 4 condanne a morte” (J. Tedeschi). [Qualche storico parla invece di 97 condanne inflitte in tutta Europa].

Come si può osservare, quello sui morti fatti dall’Inquisizione è un “mito” davvero inventato dai nemici della Chiesa, una “leggenda nera” creata proprio da quelle ideologie che invece negli ultimi tre secoli hanno provocato decine di milioni di morti e violenze inaudite.

Nella Francia giacobina di “liberté-fraternité-egalité”, in due soli anni di Terrore roberspierriano i giustiziati furono cinque volte di più di quanti ne avesse avuti in tre secoli l’Inquisizione spagnola, la quale, tra l’altro, risparmiò alla Spagna il bagno di sangue delle guerre di religione che sconvolse l’Europa settentrionale” (R. Cammilleri).

Venendo al XX secolo, persino secondo la Commissione storica “per la riabilitazione delle vittime del comunismo” (1999) – nominata nientemeno che dal Cremlino (e presieduta da Aleksandr Yakovlev) – i morti causati dal comunismo in URSS (Unione Sovietica) tra il 1917 e il 1953 furono 43.000.000 (10 milioni solo durante l’epoca di Lenin e 10 milioni durante quella di Stalin).


6) Questioni e processi particolari

6.1 – La “caccia alle streghe”

Questa questione storica è di difficile comprensione, specie se letta alla luce dell’attuale sensibilità e soprattutto se si è totalmente all’oscuro delle questioni inerenti all’esistenza e alla presenza del demonio. Oltre infatti all’ovvia difficoltà di comprendere epoche e mentalità storiche così distanti e diverse dalla propria, occorre qui una particolare capacità di discernimento, per distinguere appunto ciò che è credenza popolare, con le sue possibili deviazioni ed esagerazioni, e ciò che è invece un dato teologico certo.

Non a caso l’Inquisizione, che com’è noto è stata molte volte chiamata in causa anche per questa questione, doveva compiere appunto questo discernimento, senza farsi condizionare dalle credenze e dal furore popolare ma mettere in grado le imputate – in questo caso più che di eretici si trattava infatti di persone accusate cioè di essere strumenti demoniaci e quindi estremamente dannose anche dal punto di vista sociale (le presunte o reali “streghe”) – di poter essere giudicate con equità, protette cioè giuridicamente contro false credenze, calunnie e il “furor di popolo”, con la possibilità di difendersi e di essere difese, come avveniva già nel caso dei presunti o reali “eretici”.

In questo caso siamo di fronte alla possibilità, contemplata anche dalla fede cattolica, che alcune persone possano essersi fatte talmente catturare dal potere del diavolo, da esserne non solo possedute nell’anima ma anche nel corpo, e persino di diventarne strumenti per nuocere anche ad altre persone.

Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2117: “Tutte le pratiche di magia e di stregoneria con le quali si pretende di sottomettere le potenze occulte per porle al proprio servizio ed ottenere un potere soprannaturale sul prossimo – fosse anche per procurargli la salute – sono gravemente contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancora più da condannare quando si accompagnano ad una intenzione di nuocere ad altri o quando in esse si ricorre all’intervento dei demoni. Anche portare amuleti è biasimevole. Lo spiritismo spesso implica pratiche divinatorie o magiche. Pure da esso la Chiesa mette in guardia i fedeli. Il ricorso a pratiche mediche dette tradizionali non legittima né l’invocazione di potenze cattive, né lo sfruttamento della credulità altrui”.

Oggi alcuni autorevoli “esorcisti” (come ad es. p. Gabriele Amorth) – cioè quei sacerdoti carismatici e comunque incaricati ufficialmente dal Vescovo a praticare <esorcismi>, cioè preghiere della Chiesa per la liberazione dall’eventuale diabolica possessione (se si tratta di persone) o infestazione (se si tratta di cose o ambienti) – lamentano che, se nei secoli passati ci sia stato forse un eccesso (specie nel popolo) nel vedere questa presenza e possibilità demoniaca, oggi si può gravemente errare nell’escluderla a priori, con il grave danno (per l’anima anzitutto, ma anche per la società) di vederne aumentare la presenza e le possibilità d’influenza.

Esiste dunque, sia pur remota, la possibilità che il demonio, specie se invocato (come avviene ancor oggi nelle sette sataniche, ma come è possibile che ciò avvenga anche semplicemente in seguito ad una cosiddetta “seduta spiritica”), prenda possesso anche fisico di una persona o di un luogo; ed è pure possibile che “maleficamente” (maleficio) venga indotta la sua presenza o il suo danno anche su altre persone.

Ci furono in tal senso dei pronunciamenti magisteri ali, ad esempio nella Bolla di Giovanni XXII Super illius specula (1326) sulla magia, come poi nella Bolla Summis desiderante affectibus di Innocenzo VIII (1484) sulla stregoneria.

Nel popolo si creavano certo esagerazioni nel credere e nel vedere tale possibile presenza malefica, anche laddove si trattava magari semplicemente di disturbi psichici o addirittura di dicerie o persino di calunnie. L’intervento dell’Inquisizione permetteva quindi una più dotta ed equilibrata capacità di discernimento, come la possibilità di una inoppugnabile difesa di queste stesse imputate, secondo appunto i rigorosi e persino esemplari metodi giuridici che tali Tribunali attuavano.

Esistono addirittura recenti studi sul legame medievale (e non solo medievale, come non solo in Europa) tra stregoneria e la droga, ad esempio sull’uso di particolari erbe allucinogene; il simbolo della “scopa”, che dava alle streghe l’impressione di volare, starebbe ad indicare proprio l’assunzione di tali allucinogeni (V. Messori). “Si è scoperto che nel Seicento, epoca in cui il livello della fantasia era elevatissimo, il pane veniva talora preparato utilizzando ingredienti fortemente allucinogeni come il loglio, una sorta di droga vegetale”; così si divulgavano fantasie sui poteri magici delle streghe (lo storico A. Borromeo). L’ampiezza del fenomeno e la concordanza di testimonianze tra paesi lontanissimi e senza alcuna comunicazione tra loro induce oggi alcuni studiosi a ritenere il fenomeno causato semmai più da una allucinazione chimica che da una sorta di isteria collettiva (oltre a non escludere pure reali riti satanici e possessioni diaboliche). Effettivamente il pane di segale, usato in certe popolazioni, è spesso aggredito da un fungo che è allucinogeno (tant’è vero che ancora oggi viene usato per preparare l’allucinogeno LSD). Altri miscugli di droghe venivano da talune spalmati sui famosi “manici di scopa”, e assunti cavalcandoli nude, così da avere allucinazioni, anche la sensazione di volare (da cui la famosa diceria delle “streghe che volano con le scope”) (R. Cammilleri).     

Anche in questi casi, là dove una persona (qui quasi sempre donna) veniva accusata e denunciata di essere un tale strumento demoniaco (appunto di essere una “strega”), l’Inquisizione ecclesiastica, come nel caso della presunta o reale “eresia”, compiva una seria indagine, mettendo come sempre la persona accusata in grado di operare la sua stessa difesa e di essere protetta sia dalle calunnie che addirittura in molti casi dal “furor di popolo”. Veniva cioè posto in atto, anche in questi casi, quella protezione giuridica, che oggi molti autorevoli storici riconoscono essere stata assai all’avanguardia e impensabile per quei tempi e quasi del tutto assente in altre istituzioni sociali e civiche.

Dunque anche riguardo alla cosiddetta “caccia alle streghe” e alle accuse che anche su questo vengono rivolte all’Inquisizione e alla Chiesa stessa, c’è nell’immaginario collettivo un insieme di falsità storiche, divulgate da pregiudizi anticlericali e falsi.

Purtroppo in questi immaginari collettivi e falsi storici sono caduti persino autorevoli giornalisti (come I. Montanelli, che parlò della “caccia alle streghe o all’untore come ricerca del capro espiatorio”). In realtà avveniva proprio il contrario: “l’Inquisizione interveniva non per eccitare il popolino contro le streghe o gli untori ma proprio per difendere queste persone dalle credenze, attacchi o falsi giudizi dell’ira popolare. Dopo aver riportato la calma nel popolo e difeso l’imputato, gli offriva tutta l’opportunità di una seria indagine, con calma, nel tempo, applicando con rigore ed equità il diritto processuale (con una giustizia perfino maggiore di quella che talvolta constatiamo oggi). Tale processo, come certificano tutte le serie indagini storiche, nella stragrande maggioranza dei casi non finiva con il rogo (pena capitale) ma o con l’assoluzione o con l’ammonimento o con l’imposizione di qualche penitenza religiosa. Semmai venivano bloccati coloro che anche dopo la sentenza avessero ancora gridato “dagli alla strega” o “all’untore” (nel caso di pestilenza o carestia). Tra l’altro (come si evince persino da I promessi Sposi) la caccia alle streghe o agli untori veniva sostenuta dall’autorità laica, mentre la Chiesa giocò semmai un ruolo di moderazione se non di scetticismo” (V. Messori).

Tra l’altro, contrariamente ai pregiudizi sul Medioevo inventati dalla polemica illuminista e ancor oggi assai spesso purtroppo trionfante, il fenomeno della cosiddetta “caccia alla streghe” era invece di fatto praticamente assente durante il Medioevo.

Così Antonio Socci: “il Medioevo cristiano fu immune dalla follia criminale della caccia alle streghe. Per più di mille anni, per tutti i cosiddetti “secoli bui”, non esistono né cacce, né roghi di streghe […]. L’ossessione sanguinaria della caccia alle streghe è un fenomeno tutto moderno: comincia sul finire del 1400 e prosegue per un paio di secoli; e soprattutto nei paesi protestanti”.

È poi falso che la “caccia alle streghe” fosse espressione di violenza fatta nei confronti delle donne in quanto tali, o semplicemente nei confronti di povere malate mentali.

“Il luogo comune della repressione delle donne in quanto “diverse”, o della follia di povere matte che venivano trattate come criminali, è troppo facile. Così come è abusata l’idea che fosse la paura stessa dell’Inquisizione a indurre le accusate a inventare menzogne come le scene del sabba, il volo delle streghe, eccetera” (così lo storico A. Borromeo).

In realtà, al numero delle presunte o reali streghe, va aggiunto anche quello dei numerosi “stregoni”.

Rimane peraltro vero che alla stregoneria o magia fossero legati anche veri e propri reati e delitti, su cui si doveva rigorosamente indagare e punire.

“Non si finiva davanti all’Inquisizione per le proprie opinioni, ma sempre per l’accusa di reati effettivi: aver procurato aborti, avere avvelenato qualcuno, aver partecipato ad atti delittuosi… Spesso poi non era la Chiesa bensì il popolo che voleva veder bruciata la strega, di cui magari si era servito per pratiche vergognose, ma della quale aveva paura perché essa conosceva i segreti di tutto il paese” (così ancora A. Borromeo).

L’Inquisizione cattolica fu dunque in grado di compiere serie indagini, senza abbandonarsi minimamente alle dicerie o al “furor di popolo”, ma semmai a difesa giuridica di queste accusate, che il popolo voleva frettolosamente mettere “al rogo”.

Tra l’altro, gli Inquisitori cattolici, essendo quasi tutti Domenicani e quindi filosoficamente e teologicamente buoni “tomisti” (seguaci del grande filosofo e teologo domenicano S. Tommaso d’Aquino), credevano assai poco alla stregoneria, specie quando il fenomeno era troppo diffuso e dilagante, propendendo in genere a considerare tali accuse più frutto di superstizione popolare che di reali delitti e tanto meno di eresie (che era ciò di cui dovevano occuparsi, mentre di superstizione dovevano occuparsi semmai i sacerdoti e confessori). Solo quando il fenomeno dilagò, si cominciò ad avanzare l’ipotesi di vera e propria “adorazione del Diavolo” e quindi anche di eresia.

Tale scetticismo è presente infatti anche nella tanto famigerata Inquisizione spagnola: nelle regioni basche, ad esempio, fu proprio l’Inquisitore Salazar y Frias a salvare le presunte streghe dalla popolare “caccia alle streghe”; e nelle Fiandre la “caccia alla streghe” cessò proprio quando vi giunsero gli spagnoli.

Se vogliamo dunque uscire dall’immaginario collettivo e dai miti creati dagli avversari della Chiesa Cattolica e compiere una seria indagine storica, con l’apporto di una documentazione scientifica oggi resa possibile dall’accesso agli Archivi, possiamo contare un numero di esecuzioni (roghi) per reali e nocive forme di “stregoneria” che non raggiunge le 100 unità.

Avevamo osservato come l’Inquisizione Romana in 5 secoli di storia e per tutti i tipi di reato, condannò a morte solo 36 persone (ad esempio 1 solo caso, quello di G. Bruno nel 1600, nella papale città di Roma!).

In Francia è accaduto ad esempio che una suora, rivelatasi poi realmente una vera “satanista”, invece di essere mandata al rogo fu mandata da un esorcista, venendo così liberata non solo dal demonio ma anche da ogni conseguenza penale (l’esorcista p. G. Amorth).

L’Inquisizione spagnola, a motivo pure dello scarso interesse dato dai reali alla questione, pare che non inflisse alcuna condanna a morte per “stregoneria” (ancora G. Amorth).

Anche in questo caso, a onor del vero, dobbiamo osservare come le cose andarono invece assai diversamente nei Paesi che abbracciarono la Riforma protestante (protestantesimo che è appunto tra gli artefici del mito anticattolico dell’Inquisizione). Anzi, propri in quei Paesi si espanse con maggior virulenza il fenomeno delle streghe e della conseguenza “caccia alle streghe”. In Germania, ad esempio, che contava allora circa 16 milioni di abitanti, ci furono 25.000 processi. Nella sola Ginevra di Calvino ci furono 500 roghi di streghe! Anche nei Paesi americani raggiunti dai protestanti ci furono molti roghi per questo, come quello delle famose “streghe di Salem” del 1692 nel Massachusetts. L’ultima “strega” giustiziata nella storia fu ancora in Svizzera nel 1782. I Protestanti accusavano poi i Cattolici di non fare abbastanza contro Satana e i suoi “adoratori”.

Avevamo osservato come invece i Tribunali civili dell’Europa illuminista (anche qua proprio da parte di coloro che hanno moltiplicato e diffuso la “leggenda nera” anticattolica dell’Inquisizione), su un totale di 100.000 processi furono invece condannate al rogo 50.000 persone (A. Borromeo).


Alcuni Processi particolari

6.2 – S. Giovanna d’Arco

(Processo: 1431)

Quel Processo dell’Inquisizione che il 30 maggio 1431 a Rouen (Francia) portò sul rogo la neppure ventenne Giovanna d’Arco viene portato come simbolo non solo delle atrocità commesse dalla Chiesa ma delle sue stesse contraddizioni interne, visto che ella verrà poi persino proclamata Santa e compatrona di Francia! Cerchiamo allora di fare un po’ di luce su questo caso limite.

Se ne parla anche nel sito alla sezione “Sulle orme di < Sulle orme dei Santi”, appunto nel file S. Giovanna d’Arco, dove viene riportata per esteso la catechesi che Benedetto XVI le dedicò mercoledì 26.01.2011.

S. Giovanna d’Arco viene citata più volta anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica.

Chi fu anzitutto Giovanna d’Arco?

Nata nel 1412 a Domremy, un piccolo villaggio situato alla frontiera tra Francia e Lorena, Giovanna era una ragazza semplice, di una buona famiglia cattolica di contadini; ma già all’età di 13 anni ebbe un’eccezionale esperienza mistica: sentì al suo interno la “voce” dell’arcangelo san Michele, che la chiamava ad intensificare la sua vita cristiana ma anche ad impegnarsi in prima persona per la liberazione del suo popolo. E qui sorge l’unicità della vocazione e della missione di Giovanna d’Arco, che unisce esperienza mistica e missione politica (come fu per certi versi già quella di Santa Caterina da Siena). Nel 1429 la Francia, impegnata da lunghi decenni nella guerra contro gli inglesi, che l’avevano occupata spartendosela coi Borgognoni, stava per soccombere e per sparire dalla storia e dalla geografia europee. A questo punto Gesù stesso, secondo la testimonianza di Giovanna, volle che proprio lei, sia pur giovanissima (ha soli 17 anni) e analfabeta, si mettesse nientemeno che a capo di un esercito e liberasse definitivamente la Francia dall’invasione inglese! Superando tutti gli ostacoli, Giovanna andò dapprima a parlare col Delfino di Francia, il futuro Re Carlo VII, da anni ritirato e ormai inerme nella città di Bourges; egli, dopo averla prudentemente sottoposta a un esame da parte di alcuni teologi dell’Università di Poitiers e averne ottenuto un giudizio positivo, ascoltò l’appello della Pulzella (cioè la “verginella”, come veniva sempre chiamata), che intanto il 22.03.1429 aveva dettato e inviato un’importante lettera al Re di Inghilterra e ad altri Duchi inglesi che assediano la città di Orléans, ormai ultimo baluardo della resistenza francese, che era una reale proposta di pace nella giustizia tra i due popoli cristiani, alla luce dei nomi di Gesù e di Maria. Essendo stata respinta tale sua proposta di pace, si mise allora lei stessa a capo di un manipolo di soldati per affrontare militarmente gli inglesi! E il fatto cha ha del miracoloso è che proprio lei, una ragazzina a capo di un gruppo di soldati, il martedì santo 1429 riuscì a liberare dall’assedio degli inglesi questa ultima resistenza francese (caduta Orleans sarebbe ormai caduta tutta la Francia). Ottenuto questo straordinario risultato, riuscì a portare Carlo VII a Reims e là (secondo la tradizione che risale al V secolo con Clodoveo) farlo incoronare Re di Francia il 17.07.1429. Anche Parigi tornò allora sotto il Re di Francia (pur avendo però un Parlamento ormai condizionato politicamente dagli inglesi).

Per un anno intero, Giovanna visse con i soldati, compiendo in mezzo a loro anche una vera missione di evangelizzazione. Numerose sono le loro testimonianze riguardo alla sua bontà, al suo coraggio e alla sua straordinaria purezza (per questo veniva appunto chiamata da tutti “la pulzella”; e anche questo, come si può ben capire in tale incredibile situazione, ha del miracoloso).

Mentre è alla difesa della città di Compiègne, il 23.05.1430 Giovanna venne però tradita proprio da alcuni francesi in combutta con gli inglesi, che la lasciarono catturare e imprigionare da loro. Fu messa nientemeno che in una prigione maschile. Si sperò subito di farla condannare a morte per eresia o stregoneria, perché solo in questo modo i francesi, che ormai stravedevano per questa loro santa eroina, si sarebbero convinti che invece di una missione divina la sua era addirittura una missione diabolica. Per questo nella vicenda si fece intervenire, sotto la supervisione inglese, il vescovo di Bauvais. Il 23.12.1430 venne condotta quindi a Rouen, con l’accusa di eresia o di stregoneria e nel febbraio 1431 si riuscì ad aprire un Processo, anche se era abbastanza evidente che sotto l’apparenza di una questione teologica si nascondeva chiaramente una questione politica: si trattava di eliminare in qualsiasi modo questa eroina francese che era riuscita miracolosamente a sconfiggere gli inglesi. Fu nonostante tutto un Processo inquisitorio presieduto da due giudici ecclesiastici, il vescovo Pierre Cauchon (purtroppo sostenuto dagli inglesi e a loro debitore!) e l’inquisitore Jean le Maistre (un domenicano che fu coinvolto suo malgrado e controvoglia in questo Processo), cui spettavano le decisioni finali, coadiuvati come assessori da un folto gruppo di teologi dell’Università di Parigi (ma anch’essi erano ecclesiastici francesi che si erano messi dalla parte degli inglesi, e per questo condizionati dalla questione politica).

Benedetto XVI descrisse così quel processo, nella catechesi dedicata a S. Giovanna d’Arco, durante l’udienza generale del 26.01.2011 (v. nel sito): “Questo processo è una pagina sconvolgente della storia della santità e anche una pagina illuminante sul mistero della Chiesa, che, secondo le parole del Concilio Vaticano II, è “allo stesso tempo santa e sempre bisognosa di purificazione”. A differenza dei santi teologi che avevano illuminato l’Università di Parigi, come san Bonaventura, san Tommaso d’Aquino e il beato Duns Scoto, questi giudici sono teologi ai quali mancano la carità e l’umiltà di vedere in questa giovane l’azione di Dio […] I giudici di Giovanna sono radicalmente incapaci di comprenderla, di vedere la bellezza della sua anima: non sapevano di condannare una Santa”.

Certo, pur avendo un connotato chiaramente politico, la vicenda si prestava facilmente a possibili accuse infamanti, interpretabili come illusioni isteriche e persino come qualcosa che poteva avere il sapore della magia, della stregoneria e persino di satanico: una fanciulla che indossava l’armatura e si metteva a capo di un esercito di uomini (che in genere non trattavano certo coi guanti le ragazze che potevano avere tra loro), ma soprattutto che diceva di essere chiamata a questa missione politica e militare perché sentiva chiaramente al suo interno delle “voci” (dell’arcangelo Michele e persino di Gesù stesso!) che glielo chiedevano, non era poi così difficile farla passare per matta, per strega, per demoniaca, anche se i risultati politici e militari dell’impresa erano ormai sotto gli occhi di tutti e umanamente assai poco spiegabili.

Durante il Processo si commise anche la indelicatezza, se non crudeltà, di tenerla agli arresti in un carcere maschile (dato il ruolo militare che aveva assunto). Quando le chiesero tra l’altro di dismettere l’armatura e di indossare vesti da donna, Giovanna rispose che avrebbe accettato se le avessero concesso di essere in un carcere femminile (l’armatura maschile difendeva infatti meglio la sua assoluta purezza e castità). Invece fu lasciata in quello maschile. Allora rimise l’armatura maschile; e venne allora considerata recidiva. Insomma, tutto diventava un pretesto.

Anche durante il Processo intentato allora contro di lei, Giovanna, pur manifestando un’autentica e purissima fede cristiana e un devoto, incrollabile e fedelissimo attaccamento filiale alla Chiesa, non cedette alla tentazione di tacere questa sua straordinaria esperienza mistica (le voci interiori) che l’aveva inesorabilmente spinta ad assumersi questa missione politica e militare.

Proprio il Verbale del Processo (comunque rigorosamente redatto, conservato e ancor oggi consultabile), che contiene la trascrizione dei lunghi e numerosi interrogatori di Giovanna e ne riporta le parole, ci permette di conoscere anche la sua altissima spiritualità e testimonianza di fedeltà a Cristo e alla Chiesa, anzi di santità.

Possiamo pensare anche al suo stesso turbamento interiore, e durante il Processo forse anche al dubbio che poteva avere in se stessa di essere caduta in un’illusione (anche se ormai c’era anche la sconvolgente prova che proprio lei, una ragazzina analfabeta, avesse potuto sconfiggere gli inglesi e salvare le sorti della Francia, minacciata e occupata da cent’anni!). Pare che, quasi travolta dal dubbio o dalla tentazione di tacere di questa sua esperienza mistica (il che poteva forse salvarle la vita), Gesù stesso le apparve, dichiarandole che se le avesse negate si sarebbe addirittura “dannata”, tale era l’impellenza della missione che Lui le affidava! 

Giovanna comprese che il Processo voleva condurre rapidamente ad una condanna decisa quasi a priori e per motivi politici. Per questo il 24.05.1431 si appellò direttamente al Papa. Normalmente bastava questo per sospendere il Processo e ricominciarlo da capo sotto la supervisione di un Legato pontificio. Ma in questo caso le venne inspiegabilmente risposto (ma politicamente comprensibile) che il Papa era troppo lontano e irraggiungibile in quella situazione di guerra, e che quindi non potevano attendere il suo giudizio, respingendo così il suo appello.

Tra l’altro il 20 febbraio era morto il Papa Martino V e il nuovo Papa Eugenio IV venne eletto l’11 marzo. Tenendo presente i tempi delle comunicazioni di allora e la pressione degli inglesi (sugli stessi prelati francesi) possiamo ben comprendere come il Papa sarebbe stato comunque messo di fronte al fatto compiuto.

In questo si evidenzia l’eccezionale leggerezza di quel Processo, rispetto a quella che era l’abituale rigorosità giuridica dei Tribunali ecclesiastici, come abbiamo visto.

Essendo stato comunque diligentemente redatto, come di consuetudine, il Verbale di questo Processo di Condanna (Verbale PCon), ancor oggi consultabile, è stato possibile che il Papa stesso potesse riprenderlo e annullarlo (purtroppo solo 25 anni dopo, quindi troppo tardi per le sorti terrene di Giovanna, ma non per il riconoscimento della sua santità), con un nuovo Processo di Nullità (Verbale PNul).

Il Processo si concluse assai rapidamente con la sentenza di pena massima (“abbandono al braccio secolare”, che avrebbe provveduto all’esecuzione della condanna a morte), e fu condotta sul “rogo” il 30.05.1431, senza neppure dare il tempo al Tribunale secolare, come da prassi, di pronunciare il proprio giudizio (che in genere era di conferma e a cui spettava però l’esecuzione della pena).

Si narra che di fronte a quel rogo piangessero tutti, anche perché sentivano Giovanna invocare e lodare il nome di Gesù! Piangeva lo stesso segretario del re d’Inghilterra, presente al rogo. I soldati inglesi chiamati a contribuire al rogo andarono poi ad ubriacarsi per dimenticare quella terribile e nello steso tempo sublime scena, rendendosi conto di essere di fronte alla morte di una santa! Il Vescovo che, sospinto chiaramente dagli inglesi, permise la sua condanna, cadde tra l’altro in contraddizione concedendole di poter ricevere per l’ultima volta l’Eucaristia (cosa che non poteva essere concessa se fosse stata effettivamente eretica o strega impenitente). Infine il boia, che dopo aver acceso il rogo fu incaricato poi di raccogliere le ceneri delle sue spoglie mortali, vi trovò il cuore di Giovanna miracolosamente intatto.

Dopo 25 anni, il Papa Callisto III, venuto a conoscenza di tale “ingiusto” Processo, riaprì il caso, facendone riesaminare il Verbale, e dopo aver raccolto le deposizioni di 115 testimoni di tutti i periodi della vita di Giovanna d’Arco e il giudizio di molti teologi (che si mostrarono tutti a lei favorevoli, mettendone in luce la piena innocenza e la perfetta fedeltà alla Chiesa) si procedette, sia pur purtroppo tardivamente, all’annullamento di quel Processo e alla riabilitazione di Giovanna d’Arco (il cosiddetto Processo di Nullità di condanna o di riabilitazione), il 7.07.1456. Fu anzi considerata “figlia prediletta della Chiesa e della Francia”.

Anche il Processo di “Nullità della Condanna” o di “riabilitazione” ha un meticoloso Verbale (PNul) che contiene anche tutte le deposizioni in merito (Procès de Condamnation de Jeanne d’Arc, 3 vol. e Procès en Nullité de la Condamnation de Jeanne d’Arc, 5 vol., ed. Klincksieck, Paris l960-1989).

Giovanna d’Arco venne poi beatificata da S. Pio X nel 1909 e canonizzata da Benedetto XV nel 1920. La sua memoria liturgica, assai festeggiata in Francia (di cui è Compatrona), ricorre proprio il 30 maggio (giorno della morte sul rogo).

“Come era già avvenuto per lo sterminio dei Templari agli inizi del XIV secolo, così anche il Processo di Giovanna d’Arco fu un triste esempio di come l’Inquisizione potesse essere piegata a fini politici, profittando della lontananza e della impossibilità dì intervento rapido del Papa. Nel primo caso il Papa era ad Avignone, di fatto ostaggio del re di Francia; nel caso di Giovanna d’Arco il Processo fu chiaramente orchestrato dagli Inglesi, nella triste vicenda della <Guerra dei Cent’anni>, servendosi di prelati sul loro libro paga e mettendo il Papa di fronte al fatto compiuto […] Sia i tribunali che processarono i Templari come quello che condusse al rogo Giovanna d’Arco non rappresentavano però in fondo già più la vera Inquisizione, ma erano di fatto una propaggine del nuovo potere laico” (R. Cammilleri). “In questi casi si potrebbe addirittura parlare di acquiescenza dei tribunali ecclesiastici nei confronti della <ragion di Stato>; è falso quindi che i governi laici furono costretti ad eseguire condanne volute dalla Chiesa” (F. Cardini).

6.3 – Giordano Bruno

(Processo: 1592-1600)

Quello di Giordano Bruno, fu l’unico Processo dell’Inquisizione Romana che nella Roma dei Papi si concluse con l’abbandono al braccio secolare, cioè con una sentenza di condanna a morte (rogo).

Fu un Processo tra l’altro eccezionalmente lungo (quasi 8 anni), in cui si fece di tutto per salvarlo, cioè per condurre questo ex frate domenicano – cioè proprio appartenente a quell’Ordine dei Predicatori cui i Papi affidarono l’Inquisizione, cioè il compito di indagare se le diverse posizioni teologiche fossero ortodosse o eretiche! – a rinunciare alle sue bizzarre teorie filosofiche e teologiche, considerate assai pericolose non solo per la salvezza eterna delle anime ma anche per la vita sociale (e come tali perseguibili anche secondo il potere civile). Il suo netto rifiuto, anzi la sua ostinazione ai limiti della megalomania che lo portava ad insultare aspramente i giudici (e pensare che fu interrogato dallo stesso Santo Cardinale gesuita Roberto Bellarmino!), resero praticamente inevitabile la sua condanna, che lo portò sul rogo la mattina del 17 febbraio 1600 nel luogo di mercato romano chiamato Campo de’ Fiori.

Comunque, tale triste e unico episodio di condanna a morte per eresia in tutta la storia della Roma papale, non suscitò un particolare scalpore, visto tra l’altro che in tutti i Paesi dove predicò (Francia, Inghilterra e Germania, quindi anche in terre passate già alla Riforma Protestante), Giordano Bruno fu anche stimato per la sua cultura ma poi sempre cacciato per la sua insolenza, a tal punto che egli stesso decise di tornare alla fine nella sua cattolicissima Italia.

Per tutto il ‘600 tale condanna non ebbe dunque una particolare eco, tanto meno polemica.

Dopo l’unità d’Italia, invece, il “rogo” di Giordano Bruno venne strumentalizzato dagli intellettuali liberali, radicali e massoni – cioè proprio da parte di coloro che avevano pensato all’unità d’Italia in chiave anticattolica e antipapale, fino all’invasione di Roma del 1870 – fu eretto a simbolo e martire del “libero pensiero” contro il fanatismo e oscurantismo cattolico, addirittura presentandolo come antesignano della scienza (quando invece le posizioni del Bruno non avevano nulla di scientifico, semmai di magico) e della filosofia moderna, persino della rivoluzione francese. Moltissime logge massoniche furono intitolate a lui. E proprio nel centenario della Rivoluzione francese, il 9.06.1889 il nuovo Stato Italiano, per volontà del massone Francesco Crispi, eresse nel luogo del suo rogo, cioè in Campo de’ Fiori a Roma, quel monumento a Giordano Bruno (dell’artista Ettore Ferrari, anch’egli finanziato da logge massoniche) che divenne ed è tuttora considerato simbolo del trionfo dello spirito laicista, del libero pensiero contro il violento oscurantismo della Chiesa Cattolica.

Solo da poco tempo, nonostante l’opinione pubblica e i giovani siano sempre di nuovo indotti a vedere in Giordano Bruno il simbolo del libero pensiero perseguitato e ucciso dall’oscurantismo cattolico, più seri e obiettivi storici laici danno sul caso un giudizio assai meno ideologico, come il già citato storico laico Luigi Firpo, già allievo di Gentile e Saitta, che studiò accuratamente tale Processo e alla fine onestamente riconobbe che “pur essendo partito nella ricerca con molti pregiudizi sulla Chiesa, non poteva alla fine dire che la Chiesa avesse sbagliato”  (L. Firpo, Il processo a Giordano Bruno, Salerno Ed. Roma 1993).

Ma chi fu in realtà questo frate o ex-frate Giordano Bruno? E qual era il suo pensiero?

Filippo (così il suo nome di Battesimo) Bruno nacque a Nola nel 1548 e a 17 anni entrò nel grande  convento dei Domenicani di Napoli, diventando poi frate col nome di Giordano e fu ordinato sacerdote. Già da novizio aveva manifestato un’acuta intelligenza ma anche un carattere ribelle (leggeva Erasmo da Rotterdam, allora proibito ed era affascinato dall’umanista spagnolo Michele Serveto); forse coltivava fin da allora idee eretiche (ariane, antitrinitarie e i suoi compagni lo sentirono disprezzare apertamente la Madonna). Sapeva però rapidamente mutare e perfino dissimulare le sue spericolate posizioni intellettuali e teologiche (atteggiamento che mantenne per tutta la vita), affascinando con la sua abile oratoria. In quell’enorme convento domenicano di Napoli mancò certamente ai superiori la dovuta prudenza e il corretto discernimento nel valutare la sua vocazione. Fu così ammesso ai voti religiosi, anzi, fra Giordano Bruno ottenne senza fatica anche il titolo di Lettore, che gli permetteva di insegnare ovunque; e la sua ottima padronanza della lingua latina gli permise di scrivere, viaggiare e insegnare ovunque in Europa. Andò intanto a Roma. Non ancora trentenne mostrò una pericolosa volubilità: oscillava continuamente tra rimanere o uscire dall’Ordine domenicano e cominciò a vagare di città in città, prima nell’Italia settentrionale, quindi, sentendosi non più a proprio agio nella Chiesa Cattolica, decise di andare allora a Ginevra – quella Ginevra passata sotto la riforma di Calvino e che chiamava Roma “la Grande Babilonia” – pensando che là trovassero accoglienza le sue bizzarre idee teologiche e filosofiche. Ma Calvino, e ancor più il suo spietato successore Teodoro di Bezza, mandarono al rogo numerosissime persone e teologi (questa era la tollerante Ginevra dei calvinisti!), tra cui quel Michele Serveto, il cui pensiero aveva appunto affascinato il giovane Bruno. In quella città trovò però la protezione di un marchese napoletano passato al calvinismo (Galeazzo Caracciolo, peraltro consanguineo di Papa Paolo IV), che gli procurò un lavoro, chiedendogli però in cambio di passare decisamente al calvinismo. Venne infatti immatricolato nell’Accademia di Ginevra; ma, con il carattere polemico e arrogante che lo contraddistingueva, scrisse addirittura un libello contro le lezioni del titolare (Anthoyne de la Faye); il quale, essendo anche funzionario di Stato, lo fece arrestare, processare e il 13.08.1579 lo fece scomunicare dalla Chiesa calvinista. Fuggito allora da Ginevra, raggiunse Tolosa, riuscendo a studiare nel convento e persino ad insegnare nell’università tenuta proprio dai Domenicani (e fu un’altra loro gravissima imprudenza – e pensare che siamo proprio nella città dove l’Inquisizione dei Domenicani riuscì a debellare l’eresia catara sorta nella regione, e che sono in genere fatti passare per violenti e intolleranti). Non è chiaro quando si prese la decisione di sospenderlo “a divinis”, così che non potesse più indossare l’abito domenicano (come talora ancora faceva) e predicare come tale una dottrina che di cattolico non aveva ormai più nulla! Due anni dopo (1581) andò però a insegnare a Parigi, dove fu nientemeno che ammesso alla Corte e all’Accademia reale di Enrico III, appassionato di arti magiche come lui! Ma dopo due anni (nel 1583) si trasferì però inspiegabilmente a Londra, abitando presso l’Ambasciata di Francia.

Secondo lo storico inglese John Bossy, Giordano Bruno fu un agente segreto, il quale, vestendo di nuovo all’Ambasciata di Francia il suo abito domenicano (anche se risultava già sospeso “a divinis”), riuscì a far catturare numerosissimi cattolici, anche mediante sacrileghe Confessioni e infrangendo persino il segreto confessionale! 

Andò poi ad insegnare nella celebre università di Oxford, che era passata sotto il potere dei Puritani (protestanti radicali che non si riconoscevano in nessuna delle Confessioni protestanti) e vi avrebbe fatto anche carriera, viste anche le sue abilità oratorie e di memoria; ma anche lì s’inimicò in breve tempo i colleghi (professori), che chiamò “pedanti e asini”, dotati di “ostinatissima ignoranza e presunzione, mista con una rustica inciviltà”. Tornò quindi a Londra.

A questo punto non solo si distaccò totalmente dalla Chiesa Cattolica e dal cristianesimo stesso, ma si autoproclamò addirittura Mercurio, con chiari segni di megalomania, come se fosse il Grande Spirito inviato dal Principio Divino dell’Universo a sollevare l’umanità dal suo stato di ignoranza!

Altrettanto inspiegabilmente nel 1585 ritornò a Parigi; ma trovando profondamente mutata la situazione politica, l’anno dopo si recò allora nella luterana Germania. Qui abitò dapprima a Marburgo (ma, essendosi presentato come un rivoluzionario “alla guida della nuova umanità”, vi venne cacciato) e poi a Wittenberg (dal 1586 al 1588). Si recò quindi a Praga, dove venne accolto dall’imperatore Rodolfo II (che si era mostrato interessato ai libri di Giordano Bruno sulla magia, la cabala e l’alchimia). Raggiunse poi l’Accademia di Helmstadt, fondata dal duca Giulio, morto da pochi giorni (Bruno ne fece l’elogio funebre, con lodi sperticate a lui e al protestantesimo, accusando ovviamente la  Chiesa Cattolica). In questo continuo peregrinare europeo, qualcuno parla persino di una sua presenza furtiva in Spagna.

C’è anche chi lecitamente si chiede come gli sia stato economicamente possibile viaggiare tanto e pubblicare all’estero tante opere, avanzando l’ipotesi che fosse una spia (della Francia e poi dell’Inghilterra), visto anche l’iniziale calore con cui veniva accolto da potenti regnanti o patrizi locali.

È comunque sempre più evidente che per Bruno la religione è ormai nient’altro che un semplice strumento di potere, da cambiare di volta in volta, ma alla quale assolutamente più non crede, approdando invece a una filosofia sempre più panteistica e addirittura incline alla magia.

Scomunicato anche dal pastore luterano di Helmstadt, nel 1590 si recò a Francoforte, dove rimase fino al 1591, quando improvvisamente di nuovo fuggì per raggiungere Zurigo.

Mentre si trovava a Zurigo ricevette dal nobile veneziano Giovanni Mocenigo l’invito a recarsi a Venezia. Lo accettò volentieri, ormai deluso e stanco delle censure e scomuniche collezionate nei Paesi della Riforma protestante, e convinto che si sarebbe trovato bene in una città così colta e aperta a tutte le idee e pratiche (anche magiche) come Venezia, data la sua influenza sul Mediterraneo e la sua vocazione di città-ponte tra Oriente e Occidente.

Confessò che preferiva ormai tornare in quella Chiesa Cattolica tutto sommato “meno asina” delle altre (come la definisce egli stesso nella sorprendente e terrificante opera Spaccio della bestia trionfante).

Pensava addirittura che fosse maturato il tempo, corredato da segni astrologici, di una nuova era dell’umanità, e che essa avrebbe segnato il trionfo anche della sua filosofia.

In realtà anche lì le sue tracotanti affermazioni, non solo fortemente eretiche (anzi ormai al di fuori di ogni riferimento cristiano e persino religioso) ma persino farneticanti, scandalizzarono il suo stesso protettore Mocenigo, che alla fine si stancò, sentendosi persino ingannato dal suo istrionico ospite, che tra l’altro, come dice, “preferisce frequentare bordelli piuttosto che insegnargli ciò per cui è pagato, alloggiato e nutrito”. Chieste e ricevute ulteriori informazioni dalla Germania, proprio questo nobile veneziano lo denunciò all’Inquisizione locale, scoprendo tra l’altro che si trattava di un ex-frate domenicano. Comparendo davanti alla sede veneziana dell’Inquisizione il 26.05.1592, Giordano Bruno affermò istrionicamente di aver desiderato tornare in Italia e di non avere mai abbandonato la fede cattolica. Poteva affermare questo a Venezia, visto che intanto la maggior parte dei suoi libri, evidentemente ormai lontanissimi dalla fede non solo cattolica ma cristiana e persino religiosa, non erano ancora pervenuti in Italia. Nella seduta del 30.07.1592 chiese comunque ipocritamente perdono se avesse affermato qualcosa contro la fede cattolica. Per questo motivo  l’Inquisizione veneziana, ritenendo che ci fosse stato comunque un ravvedimento, fu propensa a riconoscerne l’innocenza; ma, prima di emettere il proprio giudizio, per sicurezza trasmise a Roma la copia degli interrogatori, verbalizzati come da prassi.

A Roma l’incartamento fu esaminato dall’Inquisitore Giulio Antonio Sartori, il quale però si accorse subito delle farneticanti posizioni ed eresie del Bruno e, contando anche sul fatto che era originario di Nola e quindi di loro competenza, chiese il trasferimento del Processo a Roma. Bruno arrivò a Roma il 27.02.1593. Il Processo fu eccezionalmente lungo (quasi otto anni), proprio perché si volle indagare bene sul suo pensiero e sui suoi scritti, non facilmente reperibili e conoscibili a Roma in quanto scritti quasi tutti all’estero. Ci furono 36 udienze (solo nel corso del 1593 venne interrogato 8 volte); ma sorprese tutti per la sua arroganza, per gli insulti e persino bestemmie.

Nella prigione del S. Uffizio, dove era detenuto, chiese e ottenne “vestiti più pesanti perché aveva freddo, una modificazione del vitto perché era noioso, oltre a penne, chiostro, breviari e la stessa Summa Theologiae di S. Tommaso”.

Per evitare errori e anche per permettere al Bruno di organizzare meglio la propria difesa, nel maggio 1594 l’Inquisizione romana decise di riprendere il processo da capo; giunsero intanto su di lui notizie e testimonianze più precise e concordanti, anche dall’estero. Si venne a sapere come il Bruno fosse stato accolto (e certo anche respinto) da molte corti europee; occorreva quindi massima prudenza e più che mai una documentazione articolata, data anche la sua notorietà in un’Europa travolta dalle divisioni provocate dalla Riforma protestante. Per questo, anche quando nel 1595 la Congregazione dei Cardinali (il più alto collegio dell’Inquisizione Romana) era pronta per emettere la sentenza, il Papa stesso (Clemente VIII) intervenne per prorogare ulteriormente l’indagine, osservando come di fatto non si era ancora a conoscenza della maggior parte degli scritti del Bruno.

La lettura attenta dei suoi libri durò dal marzo 1595 al marzo 1597, il che documenta che non si trattava di giudizi affrettati o dettati da animosità degli avversari (tra cui il suo ex protettore e poi accusatore veneto Mocenigo). Alla fine, nel 1597, si riprese quindi la discussione e si chiese al Bruno se ritrattasse certe sue manifeste eresie (il che avrebbe concluso subito il processo con al massimo la pena di qualche penitenza spirituale, come preghiere, pellegrinaggi o altre pratiche religiose del genere, come era nella prassi dell’Inquisizione). Nella sua patologica volubilità e capacità di dissimulazione, qualche volta sembrò ritrattare, oppure affermava che si trattava di ipotesi “puramente teoriche”. Ma in realtà le sue posizioni teologiche e filosofiche erano di una gravità estrema, e alla fine confermate:

Negava la Creazione (dicendo che si trattò di un’emanazione necessaria dell’Essere), affermava di conseguenza l’esistenza di molti mondi, anzi, che l’universo stesso era una divinità (panteismo), di cui lo Spirito Santo sarebbe l’anima. Circa la Bibbia affermava che non era stata che il frutto di un sogno, che Mosè avrebbe simulato i miracoli e inventato la Legge di Dio, che i profeti erano stati dei maghi, come lo furono poi gli Apostoli (e per questo finirono male). Anzi, Cristo stesso non sarebbe Dio ma solo un “mago” e un ingannatore (e a buon diritto è stato ucciso!). La verginità di Maria non sarebbe stata reale. Circa l’Eucaristia ovviamente negava la transustanziazione (cioè le reale presenza di Gesù; cosa già presente nella quarta accusa della prima denuncia). Affermava quindi la bontà della magia, la metempsicosi (l’anima che può reincarnarsi in più corpi) e la salvezza anche dei demoni” [L. Negri, False accuse alla Chiesa. Quando la verità smaschera i pregiudizi, PIEMME 1997, pp. 145/165].

Con queste idee, si capisce allora perché fu più volte rifiutato e scomunicato persino dai Protestanti.

Forse non credendo che un frate (o ex-frate) domenicano potesse arrivare a tanto, non ci si rese conto della cruda realtà, che cioè di cristiano non c’era proprio più nulla in ciò che Bruno scriveva o predicava! Per evitare l’irreparabile, si prese (e si concesse al Bruno) ancora tempo, anzi un tempo eccezionalmente lungo (fu un processo di 8 anni!) e ci si ostinava a credere alla possibilità di un suo ripensamento, procedendo in modo ancora morbido. Nel gennaio 1599 fu lo stesso Cardinale Roberto Bellarmino (il futuro Santo Dottore gesuita, che troveremo poi anche all’inizio della questione su Galilei) ad assumere personalmente la guida del Processo e a interrogare Bruno circa le sue reali posizioni dottrinali, facendo di tutto per condurlo a un serio ripensamento e per salvarlo. Anzi, il 15 febbraio tale soluzione sembrò vicina; ma più tardi, il 16 settembre, si rifiutò di dare segni di pentimento. Intanto giunsero dall’Inghilterra notizie su come avesse sparlato pubblicamente del Papa, della Chiesa e della fede cattolica. Perfino un frate che fu con lui a Venezia venne spontaneamente a Roma, autodenunciandosi e denunciando Bruno di eresia.

Sino alla fine vennero fatti continui tentativi, anche da parte di frati Domenicani e Francescani e dai Gesuiti, per indurlo al pentimento e all’abiura dalla sue eresie (il che lo avrebbe immediatamente salvato). Nessuno sforzo in questo senso ebbe successo. Anzi, ancora ai primi di febbraio Giordano Bruno scrisse un “memoriale” mostrando di essere irremovibile. A questo punto, l’8 febbraio 1600, viste le gravi, manifeste e confermate eresie, il processo passò da canonico a civile, abbandonando cioè Giordano Bruno “al braccio secolare” (che in questi casi prevedeva il rogo, ma che a Roma era un pena che l’Inquisizione non aveva mai comminata!). Lo stesso Bruno ammise che “i giudici avevano più paura loro a pronunciare tale sentenza che lui di ascoltarla”. Negli otto giorni rimanenti, venne continuamente visitato nel carcere (di Tor di Nona), anche da preti, frati, teologi, per indurlo a pentirsi, senza successo. Così la mattina del 17 febbraio 1600 fu condotto nel luogo di mercato chiamato Campo de’ Fiori e fu messo sul rogo, dove morì dopo qualche minuto.

Purtroppo il Verbale del suo Processo fu distrutto da Napoleone, insieme a molti altri, per cui non se ne conoscono i contorni precisi.

Si tenga presente che siamo in tempo in cui le eresie protestanti avevano invaso e dilaniato la Chiesa in mezza Europa, con un proliferare di Chiese assai spesso nazionali e protette dai regnanti, così che si andò poi incontro a interminabili guerre tra popoli e gruppi religiosi.

Per questo la tensione sulle questioni teologiche, che avevano quindi anche una rilevanza sociale persino internazionale, era salita di molto e generava lecitamente serie preoccupazioni da parte non solo della Chiesa ma dello stesso potere civile.

Persino la questione copernicana, cioè l’ipotesi di un sistema cosmico eliocentrico e non più geocentrico, veniva letta da Giordano Bruno come fine del cristianesimo e inizio di un “panteismo” in cui non c’è più non solo un centro, ma neppure un Creatore, un Redentore e neppure un uomo con un destino superiore alla natura. Il nuovo dio sembra sempre più la “Natura” stessa.

In questo senso, dopo aver constatato proprio col Bruno a quali gravi conseguenze poteva indurre la nuova visione copernicana, si comprende forse meglio il perché – nonostante il sistema copernicano fosse benevolmente accolto anche dagli astronomi Gesuiti romani e insegnato già in quasi tutte le università ecclesiastiche d’Europa – la Congregazione del Sant’uffizio mise provvisoriamente la propria censura su tale ipotesi (col Decreto del 5.03.1616) [v. nel sito alle due sezioni dedicate al “caso Galileo”].

Facciamo ancora una sottolineatura sull’incredibile pensiero di Giordano Bruno.

Come abbiamo già accennato, nonostante si tratti di un frate e sacerdote, sia pur con ripetuti abbandoni e ripresa dell’abito, la dottrina (e la personalità) di Giordano Bruno è talmente eccentrica da non poter essere inquadrata semplicemente dentro questioni teologiche, sia pur eretiche, ma forse  neppure dentro un dibattito filosofico, sconfinando infatti assai spesso nell’ermetismo, esoterismo, simpatizzando per religioni pagane filo-egiziane, rincorrendo pratiche di mnemotecniche, cabala, magia e quant’altro stava peraltro diventando persino di moda nei buoni salotti “rinascimentali” e che di fatto segnava l’inizio di un progressivo abbandono delle radici cristiane della stessa civiltà europea.

Possiamo definire il Bruno un fenomeno assolutamente eccezionale anche all’interno della storia stessa del Rinascimento italiano (Schelling lo definì “una personalità ebbra di Dio”), inaccettabile anche nei Paesi protestanti, con una creatività portata all’eccesso e persino con tratti di personale megalomania.

Bruno è senza dubbio di poliedrica genialità, ma assume dei connotati che hanno del visionario, del folle, se non addirittura del satanico. Si sente infatti “profeta di un nuovo mondo”, di un inizio totale di un nuovo sapere mondiale, del nuovo ordine universale che stava per sorgere, anche secondo presunti segni astrologici.

Siamo di fronte a un misto di filosofie panteiste, di religiosità pagana, di magia; certamente non siamo più di fronte a un pensiero cristiano, nemmeno eretico; possiamo dire persino che siamo qui su posizioni inconciliabili non solo con la dottrina cristiana ma neppure con la retta ragione.

6.4 – Galileo Galilei

(Processo: 1633)

Del Processo a Galileo Galilei ci siamo già occupati in altra parte del sito (cfr. tra i “Dossier”, e più sinteticamente nella sezione Fede e cultura. Qui riproponiamo solo alcune sottolineature.

Il Processo intentato nel 1633 dal Sant’Uffizio (Inquisizione romana) contro Galileo Galilei fu storicamente piccola cosa, vertendo di fatto più su una questione disciplinare che su una questione dottrinale, tanto meno scientifica (come invece vien fatto credere).

Dal 1979 tutto Verbale completo del Processo è consultabile da parte degli studiosi di tutto il mondo. Ed è stato minuziosamente studiato per 10 anni anche da una commissione vaticana. Non è affatto vero che poi Giovanni Paolo II abbia finalmente e tardivamente riabilitato Galilei nel 1992.

Dopo oltre due secoli, tale Processo è stato invece ripreso, ingigantito e falsato dalla propaganda anticattolica illuminista, che creò “il caso Galileo” come episodio paradigmatico dell’oscurantismo della Chiesa e della presunta opposizione scienza-fede.

Anche la Riforma Protestante, che inizialmente si compiacque di tale processo (fu una delle poche cose con cui si mostrò d’accordo con la Chiesa Cattolica, semmai dispiacendosi di come fosse stata troppo morbida nei suoi confronti, visto che “nelle loro mani Galileo avrebbe fatto una brutta fine”) e si oppose alla nuova scienza sperimentale, si accodò poi alla propaganda anticattolica alimentando questo “mito” anticlericale.

Come abbiamo già visto riguardo all’Inquisizione Protestante, secondo la logica luterana della “sola grazia” e “sola Scrittura” (da leggersi secondo un significato letterale) ogni intervento della ragione veniva inteso come un’adulterazione della fede. Per questo motivo la Riforma protestante si mostrò subito ostile alla nuova scienza, a cominciare da Copernico e Galileo, giungendo a perseguitare e condannare molti scienziati. Lutero diede a Copernico il titolo di “astrologo improvvisato”, qualificando la sua teoria “una follia”, e Melantone disse che “simili fantasie da loro non sarebbero state tollerate”. Furono proprio i Protestanti ad innalzare contro la teoria copernicana certi passi biblici, da doversi intendere appunto alla lettera, come la famosa citazione di Giosuè “fermati o sole!” (Gs 10,12), poi purtroppo usata anche da alcuni cattolici. Inizialmente non accolsero neppure la riforma del Calendario fatta da Gregorio XIII, definendo la Chiesa Cattolica “Babilonia” e “Anticristo”, anche perché voleva sostituirsi a Dio facendo astronomia con i numeri della matematica. Furono quindi fortemente contrari anche a Galileo, riconoscendo che nelle loro mani non l’avrebbe scampata! Si compiacquero dunque del Processo a Galilei; ma quando il Cardinale Bellarmino, che iniziò l’indagine su di lui, arrivò a dire che, qualora si fossero raggiunte finalmente le prove della teoria copernicana, si potevano leggere quei testi biblici in modo allora allegorico, suscitò l’ira dei Protestanti.

Avevamo osservato come sia sintomatico al riguardo anche il caso dell’astronomo Giovanni Keplero: quando l’università di Tubinga, dove studiava, fu conquistata dalla Riforma protestante, anch’egli si fece protestante; ma quando pubblicò la sua opera De revolutionibus, favorevole alla visione copernicana, fu subito avversato dai protestanti ed espulso dall’università. Allora nonostante fosse un cattolico divenuto protestante, fu accolto come docente proprio nella università papale di Bologna. Il che dimostra appunto come nelle università nate e gestite dalla Chiesa Cattolica ci fosse una vera apertura della ragione ad ogni sincera ricerca della verità, anche qualora fosse diretta a nuove ipotesi astronomiche e queste fossero insegnate perfino da professori, come nel caso appunto di Keplero, che alla stessa Chiesa Cattolica si erano ribellati.

I grandi riformatori protestanti si sono dunque opposti all’eliocentrismo. Anche le Chiese ortodosse sono rimaste a lungo anti-copernicane. Ma il caso Galileo è diventato il mezzo per accusare solo la Chiesa Cattolica” (prof. Jean-Robert Armogathe, Ordinario di Storia delle idee religiose e scientifiche nell’Europa moderna presso l’Ecole pratique des hautes études alla Sorbona di Parigi).

Allo stesso modo nel ‘900 il “caso Galileo” è stato costruito e utilizzato dalla cultura di sinistra (di stampo marxista) come strumento di opposizione culturale alla religione e alla Chiesa, che si sarebbe sempre opposta alla scienza e al libero pensiero (da che pulpito!). In quest’ottica venne costruita e sempre divulgata anche la relativa opera teatrale di Bertolt Brecht.

E così il <caso> viene ancora divulgato e creduto (persino da molti cattolici!).

Secondo ad esempio un’inchiesta fatta qualche tempo fa tra gli studenti universitari proprio delle Facoltà scientifiche dell’Unione Europea, risulta che il 30% è convinto che Galileo fu arso vivo dalla Chiesa; il 97% che sia stato torturato; chi sa qualcosa di più crede come frase “sicuramente storica” il celebre eppur si muove! che Galileo avrebbe pronunciato, sconsolato e fiero, di fronte agli inquisitori che avevano emesso contro di lui, per mostrare comunque la verità della rotazione terrestre (frase che fu invece polemicamente inventata a Londra più di un secolo dopo).

Ripercorriamo allora brevemente la questione, vedendo come siano andate effettivamente le cose.

Anzitutto Galileo fu uomo di fede, devoto alla Chiesa fino alla morte – ebbe tra l’altro due figlie suore di clausura – anche se di pessimo carattere e la sua vita morale privata lasciava a desiderare.

Come più volte egli stesso afferma, la fede cristiana è infatti in lui il presupposto per poter iniziare a fare scienza, poiché proprio la certezza che c’è un Creatore trascendente ed è un Logos permette di sapere “a priori” che la creazione (la realtà, anche la particella più “volgare”, come diceva) porta l’impronta del Creatore e della Sua sapienza, cioè una “logica” che è addirittura matematica.

Per questo più recenti ed equilibrati studi, a livello di alta cultura, riconoscono che proprio questa visione cosmologica nata dal cristianesimo ha permesso la nascita della nuova scienza sperimentale, che non a caso infatti sorge in Italia e poi in Europa.

Sappiamo come all’inizio Galileo fosse accolto con entusiasmo a Roma, sia da parte degli scienziati gesuiti (del Collegio Romano) come da parte dei Pontefici, alcuni dei quali erano personalmente cultori anche di astronomia.

Nella Chiesa si considerava attendibile la concezione eliocentrica copernicana (tra l’altro Copernico era un prete di Cracovia!), che infatti veniva insegnata già in moltissime università ecclesiastiche europee. Si trattava però solo di un’ipotesi astronomica, plausibile ma ancora non scientificamente provata.

Si tenga presente (anche per comprendere lo stesso “caso Galileo”) che le prove scientifiche sperimentali della rotazione terrestre e del sistema copernicano (eliocentrico) non ci sono fornite né da Copernico (1543), né da Galileo (1632) e nemmeno da Newton (1687), ma molto più tardi, da Foucoult (1851)!

Nel clima di confusione dottrinale creato in Europa dalla Riforma Protestante – tra l’altro con la sua pretesa di prendere alla lettera la Sacra Scrittura, anche su questioni scientifiche – e l’uso dell’ipotesi copernicana fatta da taluni per distruggere anche questioni metafisiche e persino teologiche (universo non più creato? l’uomo non più al centro della creazione e con un fine trascendente?), come era appunto avvenuto qualche anno prima nel tristissimo caso di Giordano Bruno, indusse la Congregazione dell’Indice (del Sant’Uffizio) a pubblicare nel 1616 un Decreto in cui si sospendeva temporaneamente la stampa del De rivolutionibus di Copernico (pubblicata 73 anni prima) prendendo “provvisoriamente” (avendo per postilla un significativo donec corrigatur, ossia fino a quando la situazione non fosse chiarita) le distanze dall’ipotesi copernicana; infatti solo 4 anni dopo, nel 1620, fu chiarito che la validità del sistema copernicano non era ancora scientificamente provata ma era solo un’ipotesi molto plausibile, il testo di Copernico fu riammesso alle stampe. Tale Decreto fu poi definitivamente soppresso nel 1757 (dopo Newton ma comunque un secolo prima che il sistema copernicano fosse scientificamente provato!) e di fatto non risultò più nell’Indice dei libri proibiti. Tale Decreto del 1616 non impediva comunque certo gli studi astronomici e la ricerca autentica della prova del sistema copernicano. Ne sono testimonianza appunto gli studi degli astronomi gesuiti e l’espressa simpatia manifestata per questa ipotesi da molti cardinali mecenati del tempo. È tra l’altro significativo che in tale Decreto non si faccia menzione di Galileo.

Che il S. Uffizio fosse sempre prudente ad accogliere le denunce, lo si evince anche da questi due episodi che riguardarono Galileo molti anni prima del Processo:

Quando nel 1615 il domenicano Niccolò Lorini, che già nel 1612 lo aveva accusato d’essere eretico, lo denunziò addirittura al S. Uffizio, tale organo della Santa Sede “non diede luogo a procedere”. Quando invece il domenicano Tommaso Caccini attaccò Galileo nelle sue prediche nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, non solo Galileo venne immediatamente difeso dal benedettino Benedetto Castelli e dal padre Luigi Maraffi (che aveva compiti di responsabilità nell’ordine domenicano), ma il cardinale Benedetto Giustiniani ordinò al padre Caccini di ritrattare pubblicamente le accuse e di scusarsi ufficialmente con Galileo. [In altre occasioni, quando Galileo venne attaccato anche dai suoi colleghi, scesero in campo in suo favore addirittura da Milano il Cardinale Federico Borromeo e da Roma lo stesso Cardinale Maffeo Barberini].

Circa l’ipotesi copernicana, sostanzialmente Galilei commise due errori, assai poco scientifici e per sé quindi contrari al suo stesso nuovo metodo sperimentale, (aggravati poi dal suo pessimo carattere e dal tono polemico e sprezzante che aveva nei confronti di chi non era d’accordo con lui, nel caso specifico con chi non credeva ancora alla teoria copernicana):

1) poco scientificamente affermò come certa la visione cosmica eliocentrica copernicana, quando invece era ancora solo un’ipotesi (e la sarà ancora per oltre due secoli);

2) commise il grossolano e pericoloso (dottrinalmente) errore di citare la Bibbia a favore dei tale visione astronomica (posizione ancora assai poco scientifica, anche se allora non rara).

Quindi, già quando nel 1615 tornò a Roma, Galileo trovò più freddezza anche in quegli ambienti culturali ecclesiastici che prima gli avevano invece riservato una calorosa accoglienza.

Il Cardinale Roberto Bellarmino (poi proclamato santo), cioè proprio colui che aveva chiesto ai suoi confratelli gesuiti del Collegio Romano di sostenere Galileo e di confermare con l’ausilio dei loro telescopi le sue scoperte, divenuto tra l’altro Padre Generale dei Gesuiti e Gran Consultore del S. Uffizio, assunse nei confronti delle posizioni di Galileo un tono allora più prudente. Il Cardinale Barberini consigliò a Galileo di lasciar perdere le considerazioni biblico-teologiche; e il Cardinale Baronio gli disse di lasciare la Bibbia alla Chiesa [è tra l’altro sua, di Baronio e non di Galileo (come comunemente si dice), quella simpatica ed eloquente espressione secondo cui “L’intento dello Spirito Santo, nell’ispirare la Bibbia, era di insegnarci come si va in Cielo, non come va il Cielo”].

Galileo Galilei venne quindi invitato dal Sant’Uffizio a spiegare meglio la sua ipotesi e a portarne le ragioni. Egli era convinto di possedere le prove scientifiche della rotazione terrestre (v. l’opuscolo del 6.01.1616 Discorso del flusso e reflusso del mare, in cui pensa che le maree siano prova della rotazione terrestre, e ristampa il libro di tre anni prima Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti). Nonostante che queste di fatto non fossero assolutamente prove a favore della rotazione terrestre (come lo stesso Keplero gli aveva inutilmente cercato di far capire), Galilei assunse anche di fronte al Cardinale Orsini quel suo peraltro usuale atteggiamento polemico e apodittico, presentando la teoria copernicana come certezza assoluta e quelle come prove decisive.

Galileo fu poi ricevuto in udienza privata dal Papa Paolo V. Il 26.05.1616, il Cardinale Bellarmino redisse a nome del Sant’Uffizio una Ammonizione secondo la quale Galileo doveva promettere, non di cessare i propri studi o di abiurare dalle proprie convinzioni scientifiche al riguardo, ma solo di togliere tutti i riferimenti alla Bibbia che egli portava nei suoi scritti a conforto della teoria copernicana, facendo sconfinare la scienza nella teologia, peraltro su una questione di cui non c’era alcuna dimostrazione.

Si potrebbe dire che Galileo “se la sia cercata”, insistendo che la Chiesa intervenisse a favore della teoria copernicana con tanto di base biblica e teologica. Il Cardinale Bellarmino ottenne questa formula di blanda Ammonizione, peraltro non diretta apertamente e personalmente a Galileo, ma solo ad alcune sue enunciazioni apodittiche (non doveva asserire l’ipotesi copernicana come sicura né tanto meno pretendere di supportarla con riferimenti biblici). Purtroppo nella pratica del 1616 si infilò anche un’ingiunzione, cioè una “promessa formale” (preparata preventivamente da Seghizzi e senza che fosse firmata né dall’autorità costituita né da Galileo), che risultò però decisiva nel Processo del 1633, come prova della disobbedienza di Galileo.

Essendosi però sparse subito false dicerie, da parte dei suoi avversari, sulla presunta ritrattazione di Galileo, il Cardinale Bellarmino gli rilasciò il giorno stesso una Dichiarazione o Attestato, in difesa della reputazione di Galileo. Il Papa stesso, che di nuovo ricevette privatamente Galileo e tenne con lui un lungo colloquio, lo sollecitò a non insegnare più in università la teoria copernicana come certezza; e Galileo promise di obbedire.

Invece non mantenne la promessa, fatta al Sant’Uffizio e al Papa in persona; e anche nella nuova edizione bolognese delle Lettere copernicane mantenne le stesse citazioni bibliche. Il che aggravò la sua situazione, perché al di là delle questioni scientifiche già scivolate erroneamente a livello teologico, si aggiunsero anche le questioni disciplinari, che porteranno pian piano al Processo. Data la notorietà ormai raggiunta da Galileo, tale disobbedienza non poteva inoltre passare inosservata e generava quindi anche scandalo negli stessi ambienti ecclesiastici romani.

Il 6.08.1623 venne eletto Papa UrbanoVIII (Cardinal Maffeo Barberini, noto per la sua intelligenza e apertura alle arti e alla scienza, astronomo egli stesso, e perfino amico e difensore di Galileo Galilei). Al nuovo Papa, Galileo dedicò infatti Il Saggiatore, pubblicato a Firenze nello stesso anno. L’anno seguente (1624) Galilei si recò in udienza privata dal Papa e gli domandò la revoca della Ammonizione del 1616. Urbano VIII lo ricevette calorosamente, con onori e doni, e gli concesse perfino il permesso di tornare a insegnare il sistema copernicano, purché fosse esposto come ipotesi e soprattutto evitando commistioni teologiche.

Incoraggiato da questo rapporto di stima da parte del nuovo Pontefice, nel 1624 Galileo iniziò a scrivere il famoso Dialogo sopra i due massimi sistemi,che venne completato nel 1630. In esso, contrariamente alle promesse e agli impegni assunti ufficialmente nei confronti del Papa, Galileo asserisce in modo assoluto (e non come ipotesi, come concordato) la validità del sistema copernicano, forse persino con un ironico riferimento al Papa (personificato nello sciocco Simplicio). Urbano VIII, che peraltro aveva ben più gravi problemi internazionali, sociali ed ecclesiali di cui occuparsi in quel periodo (!), ne fu irritato e si sentì tradito non solo nell’amicizia dimostrata a Galileo ma anche nelle promesse da Galileo stesso proferite. La questione assunse quindi un tono per così dire “disciplinare”: Galileo stava ingannando e non si era attenuto a quanto ufficialmente promesso in occasione dell’Ammonizione del 1616.

Ricordiamo però che non fu chiaro neppure come tale Promessa formale fosse stata siglata. Tra l’altro sia il Seghizzi che l’avrebbe stesa sia il cardinal Bellarmino che l’avrebbe ricevuta (nel 1616) erano nel 1932 già entrambi deceduti e quindi non potevano renderne testimonianza.

Il 23.09.1632 il Sant’Uffizio aprì allora un’istruttoria sul testo del Dialogo sopra i massimi sistemi, chiamando Galileo a comparire dinanzi al Commissario Generale del Sant’Uffizio. Galileo non si presentò alla data stabilita, inviando un certificato medico che lo dichiarava depresso, debole di stomaco e con vertigini. Il Sant’Uffizio accettò di rimandare l’incontro di un anno, con “tutto comodo del Galilei”. Una commissione (l’Inquisizione) doveva intanto studiare 8 passi del Dialogo in cui Galileo insinuava questioni teologiche all’interno di quelle astronomiche. Galileo giunse a Roma il 13.02.1633. In attesa del “processo”, che iniziò il 12 aprile, e mentre si tennero all’insegna della cordialità e del mutuo rispetto i primi colloqui con gli Ufficiali del S. Uffizio, Galileo alloggiò, su indicazione dello stesso Granduca di Toscana e col permesso del Papa, nella splendida Villa Medici (al Pincio), sede appunto dell’Ambasciata del Granducato.

Il Processo vero e proprio si svolse dal 12 aprile al 22 giugno 1633.

Anzitutto, durante il Processo, venne riservato a Galileo Galilei un trattamento del tutto speciale, a cominciare dalla possibilità di abitare in un appartamento di 5 stanze (con vista sui giardini vaticani) messogli gratuitamente a disposizione dal Sant’Uffizio, con ottimi pasti e un cameriere personale sempre a propria disposizione. Di fatto però dopo pochi giorni egli chiese e ottenne di continuare ad abitare, anche durante il processo, a Villa Medici.

La Commissione (dell’Inquisizione), composta da tre teologi (Oreggi, Inchofer, Pasqualigo) e che aveva esaminato il Dialogo sopra i due massimi sistemi, non si era occupata della controversia scientifica, perché doveva rimanere nell’ambito disciplinare (Galileo si era attenuto a presentare il sistema copernicano come ipotesi? Aveva evitato di entrare in questioni bibliche e teologiche?). Per sé, dunque, il Processo si disinteressò del problema scientifico in quanto tale.

I Consultori del Sant’Uffizio svolsero con Galileo un sereno confronto, specie sulle implicanze teologiche portate da Galileo a sostegno della teoria copernicana.

Poiché la prassi dei Processi era che l’inquisito dovesse rispondere a dei quesiti, anche in questo caso Galileo doveva rispondere a 3 quesiti; e precisamente: 1) se avesse insegnato la dottrina condannata nel 1616 col Decreto del S. Uffizio (copernicana) e secondo la promessa fatta al Bellarmino; 2) se realmente aderisse a quella dottrina; 3) se riconosceva di aver ricevuto nel 1616 un precetto personale del S. Uffizio e se ne aveva informato i revisori del libro.

La discussione e la difesa

Purtroppo, di fronte ai suoi cordiali interlocutori Galilei si mostrò polemico fino all’insulto, volendo a tutti i costi mostrare come certo ciò che ancora non lo era ed egli stesso non sapeva dimostrare.

Delle tre prove esposte a favore del sistema eliocentrico, nessuna a rigore dimostrava qualcosa di valido così da escludere la tesi opposta come errata: le prime due (anomalie dei moti dei pianeti e le macchie solari) erano di indole matematica ma lasciavano la teoria copernicana ancora discutibile; la terza (le maree), l’unica di natura fisica, era priva di fondamento, anzi decisamente falsa.

Venne benevolmente invitato a non essere così irruente e apodittico. Confesserà poi egli stesso di aver agito “per vana gloria, ambizione, ignoranza et inavvertenza”.

Ecco ad esempio un interessante passaggio del Processo – in cui tra l’altro si può notare come le domande non fossero affatto intimidatorie ma autentiche richieste di spiegazione – quando intervenne direttamente lo stesso Papa Urbano VIII (diremmo più come astronomo che come Capo supremo della Chiesa), con la seguente domanda: “Se la Terra gira attorno al Sole, come fa a non perdersi la Luna, che le rimane sempre agganciata?”. Galileo, che ovviamente non conosce la gravitazione universale, risponde semplicemente dicendo che “la Luna è legata naturalmente alla Terra”. Anche di fronte alla domanda “Se la terra si muove così velocemente, perché non ce ne accorgiamo, perché l’aria sta ferma?” Galileo non può dare ancora risposta (che sta nel principio di relatività).

La sentenza

A quali conclusioni arrivò dunque il Sant’Uffizio, dopo aver ascoltato per più di due mesi Galileo?

Il 21 giugno il Processo terminò con la condanna, in quanto appunto Galileo risultò aver trasgredito all’ordine del Decreto del 1616 di parlare del sistema copernicano in termini di sola ipotesi, e di non essersi attenuto a quanto promesso con la relativa Ammonizione (non si trattò quindi di una questione dottrinale, ma disciplinare). Dal punto di vista della controversia copernicana, non risultò dunque niente di nuovo rispetto al 1616; ma semplicemente che Galileo non aveva obbedito al divieto ricevuto, con l’aggravante di aver inoltre carpito l’imprimatur del Dialogo in modo non chiaro e compromettendo perfino alti prelati della Curia Romana.

Tale sentenza e relativa condanna non fu dunque di carattere scientifico, né poneva limiti alla ricerca in questo senso, ma semmai si affermava giustamente che dal punto di vista scientifico era ancora solo un’ipotesi (e tale resterà infatti fino 1851).

È inoltre da rimarcare come invece le vere scoperte di Galileo, che sono più nel campo della meccanica che dell’astronomia, non furono mai contraddette ma anzi elogiate dalla Chiesa.

Nulla dunque di quella presunta ottusa opposizione alla scienza inventata dal “mito” su Galilei.

Per sé dunque quel Processo non era particolarmente rilevante e verteva su una piccola questione disciplinare, senza compromettere la discussione sulla teoria copernicana. Nulla dunque di ciò che invece dopo due secoli è stato artificialmente gonfiato in polemica anticlericale, così da crearne il mito e farne il paradigma della presunta opposizione della Chiesa alla scienza nascente.

Il giorno dopo (22.06.1633), nella grande sala del Convento dei Domenicani presso S. Maria sopra Minerva (Roma), il processo formalmente si concluse, alla presenza di dieci Cardinali-giudici della Inquisizione. Di questi 10 Cardinali, peraltro solo 7 votarono per la “condanna” di Galilei; e tra i tre Cardinali contrari e dunque favorevoli all’assoluzione di Galilei (Borgia, Barberini e Zacchia) ci fu  nientemeno che il nipote del Papa (Cardinale Francesco Barberini).

Venne quindi letta la Sentenza, in cui si stabiliva che: 1) sia proibito il libro dei Dialoghi di Galileo Galilei; 2) egli sia condannato al carcere formale (ad arbitrio del S. Uffizio); 3) per 3 anni, una volta a settimana, reciti i 7 salmi penitenziali. Il S. Uffizio si riserva di moderare, mutare o levare le suddette pene e penitenze. Seguono le firme dei 7 dei 10 Cardinali che l’hanno approvata.

La Sentenza proibiva dunque la stampa del Dialogo sopra i due massimi sistemi e richiedeva al Galilei di abiurare dalle proprie posizioni “teologiche” a favore della teoria copernicana (altrimenti poteva essere imputato di eresia, il che sarebbe stato assai più grave).

Galileo Galilei ascoltò la sentenza e pronunciò in ginocchio la formula di abiura già preparata, in cui si riconobbe “colpevole di aver sostenuto la falsa opinione dell’eliocentrismo come dottrina rispondente a verità” e promise obbedienza alla Chiesa. Galileo accettò di abiurare, perché (sono sue spontanee parole) “tutto accettava purché non lo si obbligasse a dire di non essere cattolico, perché tale era e voleva morire, a onta e dispetto de’ suoi malevoli (avversari)”.

Negli Atti del processo non c’è alcuna traccia di quel celebre suo sconfortato “eppur si muove”, riferito alla Terra, che Galileo, pur costretto ad abiurare dalle sue certezze scientifiche, avrebbe pronunciato in quel frangente e che invece fa parte del mito di Galileo ancor oggi divulgato e creduto. Tale frase, intrisa di sarcasmo anticlericale, fu infatti espressamente inventata dalla polemica anticattolica dopo oltre un secolo: fu infatti inventata e lanciata a Londra nel 1757 dal pubblicista anticlericale italiano Giuseppe Baretti.

Nel Processo non vi fu inoltre la minima traccia di violenza, né fisica né psicologica (come invece molti credono, facendo parte anche questo del “mito” Galileo).

L’ipotesi di una tortura, metodo peraltro già abbandonato dall’Inquisizione romana, oltre a non esser stata posta, sarebbe stata comunque puramente formale, visto che agli infermi e agli ultrasessantenni non veniva comunque inflitta anche se comminata (e Galileo era ormai quasi settantenne e soffriva anche di problemi alla vista).

Pare che Galilei, udita la sentenza, abbia mormorato un ringraziamento ai 10 cardinali-giudici per la mitezza della pena, essendo consapevole di aver fatto di tutto per indisporre la Corte, composta anche da astronomi con una competenza in certi casi non inferiore alla sua.

Ricordiamo qui solo come la correttezza di tale Processo si mostrò anche nel fatto che le torbidi e private questioni morali di Galileo (ebbe una concubina e 3 figli illegittimi, tutti poi abbandonati), che allora erano giustamente considerate deplorevoli e scandalose e che potevano rendere Galilei attaccabilissimo, non furono invece mai sollevate all’interno del “Processo” e mai divennero motivo di discriminazione o di censura nei suoi confronti. Tra i Protestanti, ad esempio nella Ginevra di Calvino, concubini come lui potevano essere addirittura decapitati!


Entrando nei particolari effettivi della condanna possiamo notare come poi le pene si riducevano di fatto a questo:

1) La proibizione di stampare il libro dei Dialoghi era di fatto temporanea, essendo stata aggiunta anche in questo caso l’espressione donec corrigatur (cioè fino a quando non fosse corretta). La correzione richiesta ai Dialoghi, come condizione per essere stampati, era appunto di presentare come ipotesi quella che di fatto scientificamente era ancora tale (cioè l’eliocentrismo).

In pratica poi tale proibizione fu assai blanda, visto ad esempio che nel 1639 (quindi solo 6 anni dopo) il padre Marin Mersenne, dell’Ordine dei Minimi, pubblicò in francese senza alcun impedimento ecclesiastico un riassunto del Dialogo.

Inoltre tale proibizione di stampa dell’opera non impediva assolutamente di proseguire gli studi affinché si giungesse appunto a trovare tale auspicata prova o di parlare dell’ipotesi copernicana.

Infatti solo qualche anno dopo perfino il grande Inquisitore spagnolo fondò nella celebre università ecclesiale di Salamanca la Facoltà di Scienze Naturali e vi si insegnò subito la teoria copernicana.

2) La condanna al “carcere formale” (ad arbitrio del S. Uffizio) voleva dire una sorta di “domicilio coatto”. Potrebbe sembrare una condanna forte, ma in realtà fu appunto formale, data anche l’età di Galileo (quasi settantenne e ormai quasi cieco).

Dunque per Galileo non ci fu, né durante il processo né dopo, neppure un solo giorno in prigione, né fu sottoposto a violenza alcuna, come invece viene propagandato dal “mito”.

Di fatto tale “pena” si tradusse in questi termini: dopo i primi giorni in cui Galileo continuò ad abitare in Roma nella splendida Villa Medici del Granduca di Toscana, gli fu concesso di trasferirsi nella sua Toscana, a Siena, dove da luglio a settembre di quell’anno (1633) fu ospite nientemeno che dell’arcivescovo della città, Ascanio Piccolomini, suo amico.

Tale arcivescovo voleva infatti così bene a Galileo che non solo lo ospitò appunto per alcuni mesi in casa propria, ma lo sostenne anche in seguito. Galileo infatti dedicò a lui le sue opere successive. Così scrive lo stesso Galileo al padre Olivetano Vincenzo Ranieri: “Abitazione del mio più caro amico che avessi in Siena, monsignor arcivescovo Piccolomini, della cui gentilissima conversazione io godetti con tanta quiete e soddisfazione dell’animo mio che quivi ripigliai i miei studi, trovai e dimostrai gran parte delle conclusioni meccaniche sopra la resistenza dei solidi con altre speculazioni; e dopo circa cinque mesi, cessata la pestilenza nella mia patria, verso il principio di dicembre di quest’anno 1633, da Sua Santità mi è stata permutata la strettezza di quella casa, nella libertà della campagna, da me tanto gradita, onde me ne tornai alla villa di Bellosguardo e dopo in Arcetri, dove tutt’ora mi trovo a respirare quest’aria salubre, vicino alla mia cara patria Firenze”.

A fine anno tornò dunque a Firenze, prima nella villa di Bellosguardo e poi nella sua villa Il Gioiello di Arcetri, presso Firenze, proprio accanto al convento delle Clarisse, dov’era la figlia Suor Maria Celeste, che l’assistette negli ultimi anni della sua vita (essendole eccezionalmente permesso di uscire dalla clausura, pur restando suora Clarissa dell’attiguo convento). Qui ritrovò anche il figlio Vincenzo Andrea, abbandonato a Padova 25 anni prima. In questa dimora, peraltro assai bella, dove Galileo visse gli ultimi otto anni della sua vita, poteva ricevere visite e trattare con tutti; non gli fu mai impedito di continuare le sue ricerche e di avere contatti con i suoi allievi e con altri scienziati e pensatori (tra cui vescovi, monaci e frati).

3) Perfino il dolce obbligo – ricordiamo che Galileo era comunque un uomo di sincera fede cristiana cattolica – di recitare ogni giorno, per 3 anni, un salmo penitenziale (ad es. il salmo 50), giungendo così ai 7 salmi penitenziali da recitarsi settimanalmente, fu una “pena” poi mitigata, dandogli il permesso che lo facesse al suo posto la figlia Suor Maria Celeste (che come suora ovviamente già lo faceva). Galileo volle invece farlo personalmente; anzi, anche passati i tre anni prescritti, continuò spontaneamente a farlo.

Nulla dunque dell’immaginario collettivo anticlericale, divulgato ancora nel nostro tempo (e creduto persino dai cattolici!), che crede addirittura a interrogatori con violenze psicologiche, fisiche e addirittura torture! Né di ottusa opposizione alla scienza e al libero pensiero.

Anche dopo il processo, quindi negli ultimi otto anni della sua vita, Galileo continuò ad essere un uomo di sincera fede cattolica e mai si trovò sulle sue labbra o nei suoi scritti qualcosa che potesse far pensare ad un rancore per quel Processo subito (rancore invece diventato parossistico nella polemica anticattolica di due secoli dopo, e tuttora persistente).

Scrisse: “In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa”.

Il giorno 8.01.1642, cioè all’età di 78 anni, Galileo si spense nella sua villa di Arcetri, con una  morte davvero cristiana: ricevette infatti i Sacramenti (Confessione, Comunione e Unzione degli Infermi) ed ebbe il conforto non solo dell’indulgenza plenaria ma di una speciale Benedizione Papale. La figlia Suor Maria Celeste attestò che spirò pronunciando il nome di Gesù. Venne sepolto nella celebre chiesa di Santa Croce a Firenze, dove ancor oggi la sua salma trionfalmente riposa.