Affrontiamo la questione se la ragione umana possa conoscere la verità. Ci si aprirà così la strada per capire addirittura che Dio esiste

Questione 1 – La verità

Per capire … le “questioni di fondo” della vita e della fede cominciamo per così dire da una “premessa” sulla capacità dell’uomo di scoprire la verità. Se è vero che la ragione umana non conosce e non conoscerà mai in modo esaustivo la verità, è altrettanto vero che può progressivamente conoscerla, che cioè non ci sbagliamo sempre (altrimenti non ci accorgeremo neppure di sbagliare).

Questa possibilità di conoscere il vero, e di salir verso la contemplazione di verità sempre più alte, è decisivo per la vita dell’uomo. Per far questo, l’uomo possiede come “due ali”, che sono la ragione e la fede.

Con questa immagine (“La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”) inizia l’Enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II (1998), n. 1. Tali “ali” non sono mai in contraddizione, ma anzi sono complementari e si sostengono a vicenda; anche se ovviamente, essendo la fede assenso a ciò che Dio stesso rivela, permette di cogliere la verità in modo immensamente più profondo di come potrebbe fare la sola ragione.

Non a caso il cristianesimo, anzi proprio Gesù stesso, si presenta nella storia come la Verità (cfr. Gv 14,6). Affrontiamo allora brevemente la questione se la ragione umana possa conoscere la verità, anche verità così elevate da superare il livello immediatamente sperimentabile. Ci si aprirà così la strada per capire addirittura che Dio esiste.

L’uomo ha un naturale e insopprimibile bisogno di verità

L’intelligenza, in senso proprio (che gli animali non hanno), è proprio questo non solo percepire ma capire, appunto “intus-legere”, cioè cogliere l’essere delle cose, formandosi così concetti e unendoli in ragionamenti, così da poter scoprire non solo verità immediate (immediatamente evidenti) ma anche verità mediate, cioè trovate appunto mediante ragionamenti.
Per questo l’essere umano, fin dal suo apparire nel mondo, evolve non solo biologicamente, cresce non solo fisicamente, ma soprattutto culturalmente, tendendo cioè verso una verità sempre più grande. Mediante la scoperta di una verità sempre più profonda diventa anche sempre più uomo.

Così Giovanni Paolo II nel Discorso all’UNESCO (Parigi, 2.06.1980): “L’uomo vive di una vita veramente umana grazie alla cultura. La vita umana è cultura nel senso anche che l’uomo si distingue e si differenzia attraverso essa da tutto ciò che esiste per altra parte nel mondo visibile: l’uomo non può essere fuori della cultura. La cultura è un modo specifico dell’«esistere» e dell’«essere» dell’uomo […] La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, «è» di più, accede di più all’«essere». E’ qui anche che si fonda la distinzione capitale fra ciò che l’uomo è e ciò che egli ha, fra l’essere e l’avere”.

La scoperta della verità è già un godimento in sé, mentre il falso ci infastidisce (se lo scorgiamo negli altri), ci svuota e ci abbruttisce (se lo coltiviamo in noi).
Fin dal suo apparire, l’essere umano si meraviglia, prova stupore per tutte le cose e per il suo stesso esserci.

“Lo stato d’animo del filosofo è la meraviglia. L’origine della filosofia è la meraviglia” (Platone, Teeteto 155 d). “Il motivo per cui il filosofo è vicino al poeta è questo: ambedue hanno a che fare con ciò che desta lo stupore” (S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica di Aristotele, I, 3). “Chi si impegna seriamente nella ricerca scientifica finisce sempre per convincersi che nelle leggi dell’Universo si manifesta uno Spirito infinitamente superiore allo spirito umano” (dalla lettera A. Einstein del 24.01.1936, in Albert Einstein. Il lato umano, TO 1980, p. 31). “Gli uomini furono mossi a filosofare, allora come ora, dalla meraviglia, rimanendo dapprima stupiti dinanzi ai problemi più semplici, e poi progredendo a poco a poco sino a porsi problemi molto più alti” (Aristotele, Metafisica I 2, 982 b 14). “Lo stupore è il desiderio di sapere qualcosa: esso nasce nell’uomo per il fatto che questi vede l’effetto e ignora la causa; oppure per il fatto che la causa di quell’effetto trascende la conoscenza o la capacità dell’uomo. Perciò lo stupore è causa di piacere, in quanto gli è congiunta la speranza di poter giungere alla conoscenza di ciò che si desidera sapere” (S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 32, a. 8, resp.). “La cosa più bella che noi possiamo provare è il senso del mistero. Essa è la sorgente di tutta la vera arte e di tutta la scienza. Sapere che ciò che è per noi impenetrabile esiste realmente, manifestandosi come la più alta saggezza e la più radiosa bellezza che le nostre povere facoltà possono comprendere solo nelle forme più primitive, questa conoscenza, questo sentimento, è il centro della vera religiosità” (Albert Einstein, Come io vedo il mondo, 1929).

Dallo stupore nasce la domanda del perché e di conseguenza ogni ricerca (scientifica, filosofica, artistica, religiosa) della verità. Anche un bambino comincia assai presto a presentarci i suoi incalzanti “perché?”. E questa ricerca non finisce mai, non siamo mai sazi: l’uomo tende verso una Verità infinita. 
Ovviamente non tutti hanno questo desiderio con lo stesso grado di intensità; ma almeno un poco sicuramente e necessariamente sì, perché non esiste un uomo che non si sia mai domandato un perché, né potrebbe vivere a lungo la vita e le cose della vita senza un significato, così come non potrebbe vivere neppure un istante con il sospetto che ogni conoscenza sia falsa (scetticismo). Qualcuno con particolare passione e genialità, e magari senza alcun interesse immediato, dedica perfino l’intera vita per la scoperta di una verità, di cui poi milioni o miliardi di persone potranno godere. 
Nella nostra ricerca della verità, ci sono semplici curiosità, ma anche questioni più urgenti e perfino alcune da risolvere necessariamente. Evidentemente su alcune questioni, come quelle che ineriscono alla nostra professione, dobbiamo essere particolarmente competenti. Non è chiesto a tutti di sapere certe cose. Il campo del sapere è oggi talmente vasto che anche un mente geniale non potrebbe tutto abbracciarlo. Noi siamo più competenti in certi rami del sapere e per altre verità ci fidiamo di chi è in esse più competente. 
Esistono però delle questioni così decisive per l’esistenza sulle quali, pur essendoci anche lì degli specialisti, non possiamo essere ignoranti o superficiali, pena il fallimento della nostra stessa vita. In questo campo sarebbe appunto veramente sciocco e perfino tragico andare avanti “per sentito dire”, secondo le mode (“così fan tutti”), le voglie o le sensazioni del momento (“mi va, non mi va”, “se mi va, fino a quando mi va”). 
Nel campo intellettuale, cioè della ricerca e degli studi, una verità è tanto più importante quanto più profondo è il suo livello (il perché dei perché), cioè quante più cose riesce a spiegare ed unire. Per questo la questione del perché primo di tutte le cose, cioè della causa prima di tutto l’essere, è quella più difficile ma anche la più importante, perché in fondo tutte le altre verità ne dipendono.

La filosofia nasce infatti nella Grecia classica come ricerca dell’arché, cioè come ricerca del principio unificante e causa prima di tutte le cose. Platone sottolinea appunto che scienza è la conoscenza non solo dei fenomeni, ma delle cause dei fenomeni, e una scienza è tanto più elevata quanto più scopre le cause più a monte. La conoscenza della Causa prima, che già Platone e Aristotele scoprono essere trascendente (al di là dell’universo stesso), è per questo la suprema scienza: se la metafisica, cioè lo studio dell’essere in quanto essere, è già la scienza suprema, in quanto abbraccia tutto, il suo culmine, e quindi il vertice del sapere, è lo studio della Causa prima di tutto l’essere (Dio), la teologia (razionale).

Ma questo è in fondo il problema di Dio (che per definizione stessa è Colui da cui tutto dipende). Anche esistenzialmente, cioè anche dal punto di vista della nostra vita concreta, la questione del senso ultimo e globale (causa prima e fine ultimo) dell’esistenza risulta quella più decisiva, anche se non sembra. Se non so da dove vengo e dove vado non so in fondo perché vivo, ma se non so perché vivo faccio fatica a capire il senso vero anche delle singole cose della mia vita e della mia giornata. Ma anche questa domanda sul senso ultimo della vita è in fondo ancora il problema di Dio.

Occorre prestare molta attenzione a questa questione, perché oggi c’è il tentativo di ridurre il problema di Dio (la questione religiosa) ad un’esigenza solo intima, di culto, privata o che comunque non c’entra con la vita concreta, mentre sia culturalmente (il fondamento del sapere) che esistenzialmente (il perché vivo) la questione di Dio è quella da cui dipendono tutte le altre, e la risposta a questo problema condiziona, nel bene o nel male, non solo tutta la cultura, ma tutta l’esistenza concreta dell’uomo. Ne è riprova l’immensa incidenza che una religione ha sempre esercitato non solo sulla vita dei singoli ma su un’intera civiltà.

Esiste infatti nella vita di ognuno, anche se non ce ne accorgessimo, un senso ultimo, un’idea di felicità suprema e di verità fondamentale, da cui tutto dipende. Se non è Dio (trascendente) sarà un “idolo”, cioè qualcosa o qualcuno cui ci aggrappiamo come il nostro tutto. Potremmo dire che non si vive senza un “numero uno” nella classifica dei nostri valori, un assoluto, per il quale, pur di non perderlo, saremmo disposti a lasciare anche tutto il resto (cfr. Mt 13,44-46; Mt 6,21). 
Se però ci facciamo un idolo, un falso dio, se assolutizziamo ciò che in realtà  è relativo (finito), prima o poi rimaniamo vuoti e delusi (cfr. Sal 115[113 B], 4-8).
Poiché siamo esseri pensanti e liberi, la questione della verità è di fatto per l’uomo una questione obbligatoria. Infatti non possiamo non pensare e non possiamo non volere, non decidere: anche se ci sforzassimo di non pensare e di non scegliere, sarebbe anche questo un pensiero e una scelta. 
Fin dall’adolescenza ci piace avere le “nostre” idee e fare le “nostre” scelte, poiché dobbiamo essere noi stessi, e ciascuno di noi è unico e irripetibile. Crescendo però, pensando cioè più in profondità, ma anche attraverso esperienze positive o negative, ci rendiamo conto che per le nostre idee e scelte c’è un aggettivo ancora più importante di quello possessivo (“mie”): è l’aggettivo “giusto”, “vero”. Non basta cioè avere le proprie idee e fare le proprie scelte, ma abbiamo bisogno di avere idee vere (verità) e di fare scelte giuste (il vero bene). Perché un’idea sbagliata può essere rispettabilissima, ma in realtà non corrisponde alla realtà (è fantasia, opinione, non verità). Una scelta sbagliata esprime sì la mia libertà, ma ultimamente non mi edifica (bene), mi rovina (male). Quante volte facciamo infatti l’esperienza che una scelta più facile e immediatamente più allettante in realtà poi ci ha lasciato vuoti e delusi; e invece scelte magari più difficili e immediatamente richiedenti sacrificio ci hanno poi colmato di gioia e realizzati davvero. Per questo la questione di che cosa sia vero e giusto, quale sia la verità e l’autentico bene, è quella apparentemente più astratta, ma in realtà è quella più decisiva dell’esistenza; e tutto ne dipende. Solo la verità ci edifica davvero, ci rende cioè veri uomini (Gesù l’ha così sintetizzato: “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, Gv 8,32).
Su queste questioni di fondo ci giochiamo tutta le vita e perfino il nostro destino eterno. Solo alla verità corrisponde infatti qualcosa di reale: le nostre opinioni (se sbagliate) o le nostre fantasie (quando cioè facciamo dell’“a modo mio” il criterio assoluto della nostra vita) ci lasceranno vuoti e disperati, perché non vi corrisponderà nulla.

Alla fine della vita e della storia ci sarà infatti quello che chiamiamo il “giudizio universale”: in realtà sarà l’evidenziarsi pieno della verità (giudizio) e la nostra conformità o difformità ad essa. La partecipazione piena alla Verità-Bene (Dio) sarà la nostra felicità infinita ed eterna (paradiso); un significato inventato (questo è in fondo il peccato) svanirà come inesistente e ci lascerà totalmente vuoti e disperati (inferno).

Dobbiamo però riconoscere anche che, se è vero che siamo fatti per la verità e il bene, è anche vero che questo cammino non è facile e siamo continuamente tentati anche dalla falsità e dal male. Perché? Perché è più facile lasciarsi andare, vivere senza pensarci, fare le cose come vengono, seguendo quello che fanno altri o le nostre stesse voglie del momento. Scoprire e vivere la verità è bello e ci edifica davvero, ma non è facile. Possiamo avvertire perfino un’interiore resistenza alla verità.

La “Rivelazione” (Bibbia) ci fa conoscere che questa resistenza, questa fatica, è dovuta anche alla ferita del “peccato originale” (Gen 3), per cui, pur essendo fatti per la verità, per il bene, per il bello, per l’amore, cioè per l’Essere  (Dio), in noi agisce anche una “tentazione” contraria, potremmo dire quasi una “tentazione del nulla”; tentazione che si fa ancora più forte se ci lasciamo andare su questa strada con le nostre scelte personali, cioè con i nostri “peccati” personali. Sappiamo dalla stessa Rivelazione di Dio che esiste pure Satana (diavolo) che opera in noi questa tentazione del Nulla, spingendoci a ribellarci a Dio. Anche gran parte della filosofia contemporanea, avendo abbandonato l’essere (metafisica) e l’Essere stesso (Dio) ci mostra oggi con drammaticità questa tentazione del Nulla (nichilismo).

Pur essendo fatti per la verità, possiamo paradossalmente averne perfino paura; questo non solo o non tanto perché sia difficile trovarla, ma perché talora riconoscere la verità vuol dire ammettere che dobbiamo cambiare qualcosa della nostra vita; e questo può essere difficile, può inizialmente scoraggiarci e farci “preferire le tenebre alla luce” (cfr. Gv 3,19-20). Se però vogliamo davvero bene alla nostra vita, se ci sta davvero a cuore la felicità autentica della nostra esistenza, dobbiamo amare la verità più delle nostre opinioni e volere il bene più del nostro comodo.

Se non si ha sufficientemente chiara la questione della possibilità di conoscere “oggettivamente” il vero, anche nel campo religioso e morale, prima o poi sarà troppo forte la tentazione del relativismo, specialmente in quelle questioni o in quei periodi della vita in cui saràpiù difficile vivere la verità, e si cadrà quasi inevitabilmente in quel “peccato di fondo” (non è forse questa perversione della verità  quella “bestemmia contro lo Spirito Santo” che Gesù dice non essere perdonabile?  cfr. Mt 12,31-32), quello di farsi una religione, un cristianesimo, una fede ed una morale a modo proprio, che potràanche soddisfare qualche esigenza religiosa, specialmente nei momenti di crisi, ma che non salva, perché appunto non corrisponde alla verità, alla realtà delle cose (qui e nell’eternità). Il relativismo può spesso nascondere una posizione di comodo: in fondo così posso fare quello che voglio e ciascuno faccia come gli pare!

Senza questa prima questione (della possibilità di conoscere il vero, anche oltre il visibile) sarebbe evidentemente inutile e impossibile andare avanti e indagare, specie sulle quelle questioni “alte” ma decisive che vogliamo qui capire
Se ci pensiamo bene sarebbe impossibile anche discutere e dialogare, perché non si può discutere con chi nega che ci possa essere una verità valida per tutti.

Il relativismo sembra poi esaltare la libertàdella propria o altrui coscienza, sembra cioè fonte di rispetto, tolleranza e democrazia, ma in realtà annienta ogni possibilità di autentico dialogo (se non c’è una verità universalmente valida su cosa dialogare? Sarà sempre una verità “per me”, una questione di gusti – di cui appunto “non est disputandum” – che potremmo anche raccontare ma non discutere se sia valido o no). Inoltre, tacere una verità che può aiutare, rinnovare e perfino salvare la vita di un altro non è rispetto per lui, ma tradimento e complicità.


Per sfuggire alle spire del relativismo, dello scetticismo, del nichilismo …
Per andare con la ragione anche oltre il livello scientifico …

Il relativismo afferma che tutto è appunto relativo, che cioè non esiste (o comunque non possiamo conoscere) una verità, oggettiva e universale, ma esistono solo opinioni. E’ il clima culturale dominante dentro cui viviamo. Se questo fosse vero, anche il relativismo dovrebbe però relativizzarsi ed ammettere anche l’opinione contraria (che quindi possiamo dire una verità), mentre invece normalmente vediamo che proprio i relativisti si inquietano con chi non è d’accordo con loro e diventano intolleranti nei confronti di chi osa dire una verità.

Nietzsche, nella sua genialità, sembra talora riconoscere questo ritorcesi del relativismo contro se stesso, ma sembra anch’egli nascondersi che ciò conduce solo al silenzio (“Posto poi che anche questa fosse soltanto una interpretazione – e voi sareste abbastanza solleciti da obiettarmi ciò – ebbene, tanto meglio”, Al di là del bene e del male).

Lo scetticismo afferma che non c’è la verità o non possiamo conoscerla, ma mentre dice questo vuole affermare una verità. La frase “la verità non esiste” è indicibile (costringe al silenzio), perché appunto pretende essere “vera”!

Il nichilismo afferma che non c’è l’essere, che tutto è nulla, che c’è il nulla; ma come vediamo da quel “è” ogni affermazione è affermazione di qualcosa, di essere. Quindi se il nichilista vuole essere coerente deve di fatto stare zitto. Anche il nichilismo costringe al silenzio (senza poterlo neanche affermare).

Il razionalismo è la tentazione opposta, cioè un’esagerazione delle capacità della nostra ragione a tal punto da affermare non solo che possiamo conoscere tutto ma addirittura che non esiste ciò che la ragione non può dimostrare. Questa enfasi eccessiva, questa esaltazione unilaterale della ragione, ha avuto il suo trionfo nell’Illuminismo, ma come vediamo si è poi progressivamente capovolta nel suo contrario (non possiamo conoscere nulla, v. sopra). 
Ora, la ragione umana, in quanto capace di verità (cioè di rapportarsi all’essere), è sì per sé aperta al tutto (“Intellectus fit quodammodo omnia”, scrive S. Tommaso d’Aquino riprendendo Aristotele), ma è comunque sempre limitata, cioè può progredire nella conoscenza ma mai esaurirla  (“L’ultimo passo della ragione è il riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano”, scrive B. Pascal); inoltre è spesso anche fallace, cioè può sbagliare (ma non può però sbagliare sempre, altrimenti sarebbe ancora un errore affermare questo e quindi ancora saremmo costretti al silenzio).

La scienza usa la ragione per risalire dagli effetti alla causa, da un fenomeno a ciò che lo provoca. Questo perché è ovvio che “nulla viene dal nulla”, che ogni cosa ha una causa(adeguata, proporzionata). Ma per lo stesso motivo la ragione non si limita a ciò che scopre la scienza, ma risale anche dalle leggi scientifiche alla loro stessa causa, fino alla Causa prima. 

Lo scientismo afferma invece che la ragione non può andare oltre questo livello (di cause ‘seconde’), che la scienza è l’unica conoscenza certa della realtà, il più alto livello di verità raggiungibile. Ma in fondo è una ricerca volutamente interrotta, non usando più il “principio di causalità” che permette la scienza stessa. Spesso degenera in una cieca e opposta fede … nel potere del Caso, nell’intelligenza della Natura stessa, nel futuro della scienza (la certezza che un domani la scienza spiegherà ogni cosa).