Quel XX settembre … di 150 anni fa
[20/09/2020]
Nel 2011 è stato celebrato con molta enfasi, e con l’usuale e logora retorica risorgimentale, il 150° anniversario della cosiddetta “unità d’Italia” (1861). In realtà il popolo italiano era già unito, specie dalla sua identità cattolica (cosa legava Bolzano a Siracusa se non la bimillenaria fede in Cristo?). L’unità “politica” si ottenne invece ad un prezzo molto alto, di cui paghiamo ancor oggi le conseguenze, sociali, culturali ed economiche. Non una ‘federazione’ di Stati, come molti e la Chiesa stessa desideravano (e come avvenne in altri Paesi europei, vedi ad esempio la Svizzera e la Germania), ma l’invasione della penisola da parte del Piemonte (Regno di Sardegna), sostenuto dalla massoneria internazionale, con lo scopo prioritario di distruggere l’identità cattolica del Paese, centro della Cattolicità e quindi anche di grande valore simbolico per il mondo intero.
Dopo Napoleone si contavano in Italia già 20.000 affiliati a logge massoniche (praticamente quasi tutta la classe dirigente). Soprattutto da questi centri di potere venne l’opera del “Risorgimento”, che si concluse nel 1870 con la presa di Roma. Si trattava di formare uno Stato secondo i criteri liberal-massonici, ma lo scopo recondito era quello di distruggere (o addomesticare, laddove non si fosse riusciti) la fede cattolica.
Per completare il quadro mancava proprio Roma, cioè appunto la Sede di Pietro, il centro vivo della Chiesa cattolica mondiale. Si pensava persino (cfr. Proudhon) che prendere Roma significasse distruggere la Chiesa.
Dal 1861 al 1870 si cercò in tutti i modi di raggiungere l’obiettivo, ma l’operazione risultava impervia se non impossibile. Nonostante le forti pressioni e i lauti finanziamenti della massoneria internazionale, specie inglese, per non dire gli auspici di tutto il mondo “protestante”, l’obiettivo finale della conquista di Roma sembrava ancora impossibile da raggiungere. C’era inoltre l’appoggio della Francia al Papato, che rendeva l’operazione ancor più rischiosa sul piano internazionale. Garibaldi, che nel 1866 aveva già tentato l’impresa in modo fallimentare, fu bloccato, per evitare danni peggiori. Si cercò persino di infiltrarsi tra i Romani, inviando armi e denaro, perché insorgessero contro il Papa e si giustificasse così l’intervento “liberatorio” del Piemonte (secondo appunto l’ideologia non a caso detta “risorgimentale”: da cosa doveva “risorgere” l’Italia? da cosa doveva essere liberata? e perché erano i Piemontesi e la massoneria a farlo?); ma i Romani, cittadini di quel che rimaneva dello Stato Pontificio, non volevano sentire ragioni ed erano felicemente e tenacemente fedeli al Papa. Quando però il timore dell’aiuto francese venne meno, perché la Francia si trovò schiacciata nella guerra contro la Prussia, si comprese che era giunto finalmente il tempo di attaccare.
Si giunse così al 20 settembre 1870.
Una data talmente simbolica e fondamentale, che doveva entrare tra i “miti” del Risorgimento, quei dogmi laicisti imposti al popolo italiano da una potente minoranza (massonica) e tuttora intoccabili e indiscutibili. A ciò doveva provvedere anche la nuova toponomastica risorgimentale (che doveva sostituire quella cristiana); infatti, nelle più grandi città come nei più piccoli paesi, non dovevano mancare (e tuttora non mancano!) vie o piazze dedicate a Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele II, ma anche a quel fatidico XX settembre!
Si veda nel sito in proposito (sul Risorgimento) il Dossier e il Documento più sintetico. Ricordiamo qui solo alcuni dati significativi.
La “breccia di Porta Pia”
In quel giorno (20.09.1870), il generale Raffaele Cadorna, a capo delle truppe piemontesi, dovette cannoneggiare per 4 ore per aprire la fatidica “breccia di Porta Pia”. Il popolo, fedele al Papa Pio IX e nemico degli invasori piemontesi (detti ancora in romanesco ‘buzzurri’, cioè rozzi e non invitati), voleva opporsi con tutte le forze. A questo punto il Papa comandò invece, anche ai propri soldati, di non opporre resistenza, per evitare un inutile bagno di sangue.
Gli Zuavi avrebbero dato la vita per difendere Roma, ma fu Pio IX stesso a ordinare la desistenza. Fonti militari citano ad esempio una mitragliatrice in dotazione che non fu neppure usata: “si trattava di una Claxton calibro 690, di fabbricazione americana e commercializzata successivamente in Francia. Pronta all’uso, non venne impiegata probabilmente per gli ordini ricevuti direttamente dal Papa. La resistenza avrebbe dovuto essere infatti simbolica: quel tanto che basta per indicare al mondo come Roma fosse stata conquistata con un atto di guerra. Un bagno di sangue prodotto dall’uso della mitragliatrice non avrebbe giovato all’immagine del Regno d’Italia né del Papa che, opponendo una resistenza così accanita, per quanto legittima, avrebbe provocato un massacro”.
Il primo a passare attraverso la breccia fu, significativamente, un pastore protestante!
I “bersaglieri” poterono quindi entrare agevolmente e percorrere la via (che ancor oggi si chiama “via XX Settembre”), lasciata deserta dai romani e con imposte delle case chiuse, che conduce con un rettilineo direttamente al palazzo del Quirinale, dove il Papa abitava.
Il Papa Pio IX si era ritirato in Vaticano, dove rimase praticamente ‘prigioniero’ fino al 1929 (anzi di fatto i Papi non ne uscirono fino al 1962).
Tra l’altro, proprio in quell’anno (1870) era in corso, anche se già sospeso dall’estate, nientemeno che il XX Concilio Ecumenico della storia della Chiesa (il Vaticano I), che come tale aveva convocato a Roma tutti i vescovi del mondo e che dovette essere così bruscamente interrotto!
Il centro storico e vitale della Chiesa Cattolica (oggi 1,4 miliardi di persone in tutto il mondo), la sede episcopale del successore di S. Pietro e come tale, secondo le parole stesse di Gesù (cfr. Mt 16,18), capo visibile di tutta la Chiesa, la Chiesa “Omnium Urbis et Orbis Ecclesiarum Mater et Caput” (madre e capo di tutte le Chiese del mondo, com’è scritto sulla facciata della sua cattedrale, S. Giovanni in Laterano), la città del martirio e delle tombe dei principi degli Apostoli (Pietro e Paolo, che ne sono i patroni), come di altri Apostoli … andava in mano ad un potere che, nonostante la facciata talora ancora ipocritamente religiosa, fondamentalmente era acerrimo e storico nemico della Chiesa.
Con questi nuovi connotati, contrari alla sua bimillenaria storia cristiana, il 3.02.1871 Roma venne dichiarata Capitale d’Italia.
Il Palazzo del Quirinale, storica abitazione dei Papi su uno dei colli più alti di Roma (e quindi più salubre del palazzo apostolico Vaticano nelle vicinanze del Tevere), di importanza mondiale e di una ricchezza anche artistica di enorme rilievo, fu immediatamente sequestrato dagli invasori, come tutti i beni della Chiesa; dal 2.07.1871, con Vittorio Emanuele II, divenne l’abitazione del Re d’Italia; ed è ancora oggi, come noto, l’abitazione del Presidente della Repubblica.
Negli anni seguenti, Roma venne non solo letteralmente sequestrata dal nuovo potere, ma fu pure invasa e saccheggiata da anticlericali, giunti a Roma anche dall’estero a seguito dell’esercito piemontese, tollerati se non incoraggiati dai nuovi governanti: si moltiplicarono così atti di violenza e irrisione contro la Chiesa, saccheggi, profanazioni, spettacoli blasfemi contro la fede cattolica. Particolarmente oltraggiata fu la figura del Papa. Ancor oggi, persino nei testi di scuola, la figura di Pio IX è presentata come avversa all’Italia e ridicolizzata come simbolo delle anacronistiche “pretese” della Chiesa sul potere, la cultura e l’intera società; cioè in fondo un “nemico” del progresso e della libertà (come si è fatto credere del resto per tutta la storia della Chiesa, secondo i triti luoghi comuni ancor oggi divulgati già nelle scuole di ogni ordine e grado). Persino alla morte del Pontefice, nonostante i 100.000 devoti presenti alle esequie (celebrate il 12.07.1878), squadracce di facinorosi anticlericali inscenarono urla, proteste, sassate, insulti, volendo addirittura gettare la salma del Papa nel Tevere.
Il Papa Pio IX sarà però beatificato da Giovanni Paolo II il 3.09.2000 per “l’eroicità delle sue virtù”.
Cosa aveva già fatto il Regno sabaudo
contro la Chiesa Cattolica?
Il Regno sabaudo, man mano che avanzava alla conquista dell’Italia, nonostante la sua politica cosiddetta “liberale” e lo Statuto che riconosceva formalmente la religione cattolica come “religione di Stato”, secondo il celebre quanto falso motto di Cavour “libera Chiesa in libero Stato”, manifestava di fatto tutta la sua indole anticattolica, di stampo massonico, con leggi anticlericali di inaudita violenza, come quella Rattazzi del 1855, che sopprimeva tutti gli ordini religiosi e ne incamerava tutti i beni (chiese, conventi, monasteri, seminari, e relative proprietà, compresi terreni, biblioteche, archivi, oggetti d’arte e di culto, paramenti). Non si esitò a farlo poi in tutte le regioni d’Italia progressivamente invase e annesse dal Piemonte. Solo nel Sud d’Italia furono chiusi e confiscati i beni di 1.100 conventi e vennero lasciati per strada 20.000 religiosi e religiose. E si giunse addirittura a farlo a Roma, centro della Cattolicità, sede di Pietro e pure delle Case generalizie di tutti gli ordini religiosi del mondo.
Lo stesso Cavour ammise poi che “si trattò di un provvedimento grave, che smentiva gli stessi presupposti liberali sui quali il Piemonte stava costruendo il proprio edificio costituzionale”.
Si cercò in tutti i modi di mettere le mani anche sulla nomina dei Vescovi (come sempre cerca di fare il potere … basti pensare ancor oggi in Cina!), senza ovviamente riuscirvi (perché com’è noto è prerogativa del Papa); ma se ne allontanarono alcuni dalle loro diocesi, impedendone ad altri l’ingresso. Per cui già nel 1861 erano 49 le diocesi lasciate senza vescovo; divennero poi 89 (di cui 57 nel Meridione, Napoli compreso)!
Si obbligarono persino vescovi e preti a cantare il Te Deum per l’arrivo dei Piemontesi e a dare i sacramenti ai liberali, scomunicati. Chi non ubbidiva incorreva in pesanti multe e veniva condannato a 2 o 3 anni di carcere. Solo dal 1860 al 1864 vennero arrestati persino 9 cardinali (tra i quali il card. Corsi di Pisa e il card. Pecci di Perugia, futuro Leone XIII), una ventina di vescovi furono incarcerati (un carcere duro, che ne portò 16 alla morte), 16 vescovi furono espulsi dalle loro diocesi, alla fine 43 furono mandati in esilio; 12.000 furono i religiosi dispersi, centinaia i preti processati e 64 quelli che furono subito fucilati.
Non proprio una “libera Chiesa in libero Stato”!
Gli interventi e le profezie del torinese San Giovanni Bosco
Lo Spirito Santo suscita nella Chiesa sempre nuovi Santi, anche adatti alle necessità del momento. Così Torino vede proprio in questo periodo un rifiorire di santi, che, nella loro opera per la salvezza eterna delle anime, sanno anche far fronte alle necessità materiali, talora tragiche, create pure dalla rivoluzione industriale e da scellerate politiche. Si pensi ad esempio a San Giuseppe Cottolengo, San Giuseppe Cafasso, San Leonardo Murialdo, San Giuseppe Marello, ai Beati Giuseppe Allamano e Francesco Faà di Bruno.
Ovviamente una figura di particolare spicco, specie nell’educazione cristiana e umana della gioventù più povera e abbandonata, fu nella Torino del tempo, e poi in tutto il mondo, quella del sacerdote torinese San Giovanni Bosco.
La sua opera, sebbene osteggiata, era però stimata anche dai sovrani e dallo stesso Cavour, anche perché nessuno, neppure il Regno, sapeva far fronte come lui al recupero e alla formazione della gioventù, specie appunto quella più abbandonata e lasciata ai margini della nuovo società industriale e oppressiva che si veniva a creare proprio a Torino e che richiamava nella grande città povera gente dalla campagne e dalle valli alpine (come in seguito dal sud d’Italia).
Nella sua formazione integrale di questa gioventù, don Bosco era in grado di scorgere e far fronte anche a quella istruzione e cultura di stampo anticattolico che si cominciava a divulgare nel Regno (scrisse ad esempio per loro anche una “Storia della Chiesa” che ne presentasse i tratti veri e non con quelle falsità anticlericali che ancor oggi invadono la mente degli studenti italiani; e fondò una tipografia, anche per poter stampare queste opere “alternative”, dove i suoi ragazzi potevano pure imparare un mestiere, avere una retribuzione equa e ritmi di lavoro che solo lì erano davvero umani; mentre nelle ditte e industrie di Torino, se mai vi trovavano lavoro, erano invece costretti, già a 12 anni, a massacranti turni di lavoro persino di 12 ore consecutive).
Non ebbe però timore, e i santi lo sanno fare con la forza che viene da Dio, di far fronte anche ai sovrani e politici, nella loro pretesa anticattolica sopra accennata.
È noto che S. Giovanni Bosco godeva anche del dono di sogni e profezie, che si sono puntualmente avverati, e che non ebbe timore di riferire anche riguardo al Re e a Cavour!
In merito alla legge Rattazzi che sopprimeva gli ordini religiosi e ne incamerava i beni, S. Giovanni Bosco si recò da Cavour e perfino dal Re, avvertendo quest’ultimo che avrebbe rischiato molto se avesse approvato tale legge, perché con Dio non si scherza e non si può combattere così la Sua Chiesa. Sta di fatto che, cosa mai accaduta in alcuna dinastia reale, in 4 mesi il Re perse la madre, la moglie, il fratello e il figlio. Quando poi nel 1870 Vittorio Emanuele II si installò a Roma e andò ad abitare al Quirinale, solo 9 anni dopo, a meno di 58 anni, il primo Re d’Italia morì “di febbri romane” (malaria).
A proposito della cosiddetta neonata “unità d’Italia” e alla futura conquista di Roma, già nel maggio 1861 Giovanni Bosco scriveva nel giornale Letture Cattoliche, stampato appunto nella tipografia dell’oratorio Valdocco, un allarmato “Appello ai Cattolici” in cui disse: “Si fa guerra al Capo della Chiesa per distruggere, se fosse possibile, la stessa Chiesa e protestantizzare l’Italia. Si versa a piene mani lo scherno, lo sprezzo, il ludibrio sul Romano Pontefice, e ciò per renderlo spregevole. In tal guerra, che è guerra di Dio e nostra, tutti i veri cattolici si uniscano in difesa del Papa, ossia della Cattolica Religione”.
A proposito dei sogni di don Bosco, che riguardavano anche Cavour e ne fu informato. Il 2 giugno 1861 il clero di Torino si rifiutò di unirsi ai festeggiamenti civili per l’unità d’Italia che si sarebbero tenuti in città: di risposta Cavour dispose che nessuna autorità civile partecipasse alla processione del Corpus Domini (come era invece usuale per quella ipocrita religiosità di facciata del Regno) prevista per il 30 maggio. Ma improvvisamente il giorno prima Cavour si ammalò e il 6 giugno morì! Esattamente sei mesi prima aveva detto alla Camera: “Sapete che accadrà entro sei mesi?” (intendeva l’unità d’Italia … invece). Non si scherza con Dio, gli aveva detto don Bosco!
Con quegli immensi e gravissimi sequestri dei beni della Chiesa operati in Piemonte dalla legge Rattazzi (erano peraltro già stati effettuati ovunque in Italia da Napoleone), si cercò anche di riparare all’enorme falla del “debito pubblico” di cui soffriva il Regno di Sardegna (significativo che già allora, come si dice ancor oggi per lo Stato, tutte le strutture erano dette “regie”, mentre il debito dello Stato veniva e viene chiamato “pubblico”).
Nel 1848 il Regno sabaudo aveva infatti già accumulato un debito di 135 milioni (di Lire del tempo). Nonostante che i beni incamerati dagli Ordini religiosi soppressi in Piemonte nel 1855 fecero entrare nella casse dello Stato sabaudo oltre 2 milioni, il debito in quell’anno fu di 800 milioni, e nel 1860 raggiunse la sbalorditiva cifra di 1.024.970.595 di Lire. Ciò era causato soprattutto dalle spese militari, che già nel periodo 1830-1845 non furono mai meno del 40% delle uscite complessive dello Stato. Solo la folle guerra in Crimea, con cui il Regno cercò di ottenere una collocazione onorevole nel panorama internazionale, costò 74 milioni di Lire (invece dei 15 previsti). Con le cosiddette Guerre d’Indipendenza le spese militari assorbirono nel 1848 il 59,4% della spesa pubblica, nel 1849 il 50,8%, nel 1850 il 55,5%, e nel 1860 addirittura il 61,6%. Questa incidenza della spese militari sul bilancio dello Stato fa rabbrividire, ancor più se si pensa che assistenza sociale, igiene, sanità, belle arti e pubblica istruzione assorbivano insieme solo il 2% della spesa pubblica.
È proprio vero che quello dello Stato Pontificio
fu un malgoverno?
Ancor oggi molti pensano, in base a quello che hanno letto o studiato, che quello dello Stato Pontificio sia stato un governo tra i più arretrati e peggiori della storia. Ovviamente anche questa è una leggenda inventata dal nuovo potere e Stato, così da giustificare meglio il proprio intervento militare (invasione) per “liberare” i cittadini di quello Stato clericale e poi di Roma stessa dalle malefatte pontificie.
Teniamo comunque presente che quando parliamo del Papa come sovrano di uno Stato e quindi di scelte anche economiche, politiche e di governo, non è in gioco la missione ecclesiale della salvezza delle anime (cioè l’annuncio del Vangelo e la grazia dei Sacramenti) né tanto meno l’”infallibilità”, di cui gode il Papa, per particolare assistenza dello Spirito Santo (promessa da Gesù stesso a Pietro), solo in certe affermazioni cruciali per la fede, come e soprattutto quelle dogmatiche.
Però la storiografia autentica, non quella ovviamente inventata dal Risorgimento e diffusa ancor oggi, riconosce come anche dal punto di vista del governo politico lo Stato pontificio godesse di condizioni particolarmente felici, anche a confronto con altri Regni dell’epoca, e per il bene stesso dei suoi sudditi. Tra l’altro è bene ricordare che lo Stato pontificio fu l’unico a formarsi sostanzialmente per donazioni (dopo il crollo dell’impero romano e nel Medioevo) e che in un millennio non ha dichiarato alcuna guerra per ambizione espansionistica o di prestigio internazionale, come fecero invece tutti gli Stati, ma solo eventualmente per (legittima) difesa.
A proposito di bilanci statali, di cui abbiamo appena parlato a riguardo degli enormi problemi finanziari del Regno sabaudo e vedremo tra poco del Regno d’Italia, possiamo tra l’altro rilevare, ad esempio a proposito della pressione fiscale (le tasse) esercitata sui cittadini, che lo Stato pontificio fosse per l’epoca (XIX secolo) il migliore: si parla di 22 franchi a persona; mentre, al cambio d’epoca, era di 32 franchi nel Piemonte, di 40 in Francia e addirittura di 80 in Inghilterra.
Inoltre, lo Stato Pontificio aveva raggiunto il “pareggio di bilancio” già nel 1859!
Se poi parliamo soprattutto di Roma, è ancor oggi evidente a tutto il mondo (e ad ogni pellegrino o turista) che, oltre al glorioso passato imperiale, la città ha conosciuto, sotto i Papi, specie nel Rinascimento, un tale fiorire di arte e di cultura, senza dimenticare le opere caritative, che ne fanno tuttora una delle città se non la città più bella del mondo.
Nel sito abbiamo poi parlato pure del trionfo, nella Roma dei Papi, della scienza e persino della stessa astronomia, prima ancora dei tempi di Galileo stesso (cfr. Dossier, n. 3 e Documento più sintetico, nn. 4-5).
Facciamo solo una sottolineatura su alcune delle opere pubbliche realizzate nello Stato pontificio proprio sotto il governo di Pio IX (1846/1878).
Oltre ad aver bonificato l’agro romano dalle paludi (lo fece anche per quelle della pianura romagnola) e reso agibile il traffico fluviale sul Tevere, Pio IX ampliò i principali porti dello Stato anche sull’Adriatico. Costruì inoltre le prime linee telegrafiche e ferroviarie (la Roma-Frascati già nel 1856, ma prima del 1870 si parla di una rete ferroviaria già di circa 400 km. E pensare che anche su questo c’è ancora chi racconta che il Papa si fosse opposto alla ferrovia come invenzione diabolica!). Fornì tutta Roma di acqua potabile, di immensi giardini e parchi aperti al pubblico, di numerosi ospedali (1 ogni 9000 abitanti; basti pensare che Londra ne possedeva 1 ogni 40.000), di istituti di beneficenza (1 ogni 2700 abitanti, contro 1 su 7000 di Londra). Aveva persino promosso, cosa assolutamente inaudita per il tempo, libere associazioni operaie. Diede inoltre nuovo impulso a scavi e restauri. Ancora il 10 settembre 1870 (cioè 10 giorni prima dell’invasione piemontese!) il Papa inaugurò una fontana su piazza di Termini, acclamatissimo dal popolo romano.
E questo sarebbe stato il governo “oppressivo” da cui i Piemontesi (e la massoneria inglese) volevano liberare gli Italiani e i Romani, e che ancor oggi la propaganda anticattolica, talvolta assorbita ingenuamente anche dai cattolici, continua a descrivere come “uno dei peggiori governi della storia”!
Il nuovo potere liberal-massonico… e il popolo vero
Già nel Regno di Sardegna ci si era abituati ad elezioni farsa.
Garibaldi stesso, appartenente ufficialmente alla Massoneria (nel 1863 fu eletto Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato di Palermo e l’anno dopo addirittura Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia; nel 1872 ne fu acclamato onorario a vita), era stato eletto nel 1849 nel Parlamento Subalpino con soli 18 voti!
L’allora Presidente del Consiglio Massimo d’Azeglio confidò: “Questa Camera rappresenta il Paese reale come io rappresento il Gran Sultano turco!”.
Nelle elezioni del 1861 (dopo la cosiddetta unità d’Italia), gli aventi diritto al voto erano solo 418.850; di questi votarono solo il 57,2% degli aventi diritto; per cui per la formazione del primo Parlamento d’Italia votarono solo 239.853 Italiani. Il nuovo Parlamento rappresentò quindi solo l’1% della popolazione. Praticamente solo i liberali!
Cavour stesso, nella sua circoscrizione di Torino, ebbe solo 300 voti. L’ex-Ministro Rattazzi, quello della legge che abolì gli ordini religiosi, nella sua circoscrizione di Alessandria, ne ebbe ancor meno. Persino Garibaldi, pur vedendo tra gli eletti uno dei “Mille” (Agostino Depretis), si disse pentito di aver contribuito a creare “un’Italia che non fu del popolo, come pensava, ma di una corporativa casta di notabili e possidenti”; cercò allora di fondare la “Lega della democrazia”, ma la casta liberale al potere, che lo aveva usato, fu molto infastidita da questa sua iniziativa… e sappiamo dove finì.
Che il Regno d’Italia non fosse che la continuazione di quello sabaudo è significativamente comprovato anche dal fatto che il primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II, continuò a chiamarsi tranquillamente “II”. Anche il primo Parlamento del Regno d’Italia risultò come VIII legislatura (del Regno Subalpino); e la legislazione adottata era di fatto ancora quella che già vigente in Piemonte. Anche la Costituzione del nuovo Stato unitario ricalcò sostanzialmente lo “Statuto Albertino”.
A proposito di Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia …
A lui fu eretto, nel centro di Roma, il più grande monumento del mondo, detto appunto “Vittoriano” (dove infatti la sua statua equestre, di dimensioni gigantesche, vi troneggia), anche se popolarmente detto “Altare della Patria” (che vi è inglobato, con la tomba del “milite ignoto”). Doveva essere gigantesco, impressionante, e dominare la città: un vero “contraltare” a S. Pietro! Non si badò quindi a spese … nonostante gli enormi problemi di bilancio del nuovo Regno d’Italia!
Il “Vittoriano” (detto “Altare della Patria”)
Appena dieci anni dopo la conquista di Roma (1880), già morto Vittorio Emanuele II, nel pieno di una crisi sociale acutissima, mentre il nuovo Stato fatica terribilmente a organizzarsi ed è alle prese con enormi problemi finanziari, viene però lanciato il grande concorso internazionale per celebrare con un enorme monumento il primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II (detto infatti Vittoriano), comprendente al suo interno, secondo uno stile francese, la tomba del “Milite ignoto”, quasi nuovo agnello sacrificale per il nuovo culto della Patria (come vero «altare della patria», così infatti oggi viene spesso chiamato tutto il Vittoriano, confondendo la parte col tutto).
L’idea fu del ministro Giuseppe Zanardelli (1826-1903), uomo politico esplicitamente massonico (di lui si narra addirittura che, in un momento di perplessità sui troppi numerosi parlamentari massoni, osò polemicamente mostrare di avere sotto il cappotto, persino a Montecitorio, il “grembiulino” massonico).
[A proposito di monumenti voluti dalla Massoneria: il 9.06.1889, nel centenario della Rivoluzione francese, il nuovo Stato Italiano, per volontà del massone Francesco Crispi, eresse a Campo de’ Fiori, cioè nel luogo del rogo (che è stato l’unico rogo dell’Inquisizione romana in 500 anni! vedi al punto 6.3), un monumento all’ex-frate Giordano Bruno, finanziato da logge massoniche, che divenne ed è tuttora “simbolo del trionfo dello spirito laicista, del libero pensiero contro il violento oscurantismo della Chiesa Cattolica”].
Il gigantesco monumento a Vittorio Emanuele II, da erigersi al centro geometrico di Roma (sopra piazza Venezia; non importa se si doveva coprire così la straordinaria chiesa dell’Ara Coeli, anzi), doveva essere imponente, impressionante, soprattutto senza alcun riferimento cristiano.
All’appello del concorso internazionale risposero centinaia di progetti da tutto il mondo; ma erano talmente megalomani, irrealistici ed economicamente insostenibili, che si lanciò un secondo concorso solo nazionale con criteri esplicitamente più sobri. Il ministro Zanardelli (nel governo Depretis) scartò tutti i progetti che avessero sia pur minimi riferimenti al cristianesimo e scelse quello dell’architetto Giuseppe Sacconi (1884), con una simbologia del tutto laica se non pagana.
“Doveva essere programmaticamente concepito come un anti-Vaticano, un centro sacrale laicistico, patriottico e neopagano, contrapposto a quello cattolico e papale” (così lo storico Franco Cardini).
Fu di fatto inaugurato solo nel 1911 e completato coi dettagli nel 1935. Costò una stratosferica cifra di denaro pubblico. La tomba del “milite ignoto” (centro dell’Altare della Patria che sta al centro del Vittoriano, e posta sotto la “dea Roma”, fu composta nel 1921, cioè dopo la Prima Guerra Mondiale, e contiene appunto i resti di un soldato della “Grande Guerra”, la cui identità è appunto rimasta sconosciuta.
Che la grande regia del nuovo Regno fosse della massoneria, che già dal 1861 aveva assunto un ruolo fondamentale nella vita politica e culturale dell’Italia, lo si evince anche dal fatto che ancor più dopo il 1870 nel nuovo regno d’Italia i più importanti Ministeri furono affidati ad illustri e noti massoni.
Del resto anche l’inno, la bandiera e lo stemma che saranno scelti per il nuovo Stato italiano sono tutti intrisi di contenuti massonici e volutamente senza alcun riferimento cristiano!
Ma torniamo al potere politico, per nulla eletto dal popolo …
Anche a Roma, come in tutte le altre regioni conquistate militarmente dal Piemonte, si tenne un Plebiscito-farsa che sancisse l’annessione al Regno d’Italia. Ma non andò a votare praticamente nessuno!
Nelle elezioni del 1874, che dovevano in fondo permettere la formazione del primo governo del completato Stato Italiano, gli aventi diritto al voto erano soltanto il 2,18% della popolazione (su 30 milioni di Italiani gli aventi diritto al voto erano in tutto 605.007).
Nelle elezioni del 1876 si recarono a votare 368.750 Italiani, per cui la Camera (“espressione del popolo sovrano”) di fatto esprimeva la volontà dello 0,94% della popolazione italiana; e di questi, quasi un terzo (almeno 100.000) erano di fatto dipendenti del governo e da questo brutalmente consigliati su chi votare.
Ad esempio, il massone e critico letterario Francesco de Sanctis (uno dei vati del Risorgimento, che divenne Ministro della Pubblica Istruzione) nel suo collegio di San Severo, dove gli aventi diritto al voto erano solo 923 (meno del 2% della popolazione) e di fatto votarono solo 401 persone, fu eletto con 359 voti, divenendo però ugualmente Deputato e poi Ministro.
I Cattolici italiani potevano votare ma non potevano essere eletti (strana concezione della libertà sociale questa dei liberali … piemontesi!); per questo si rifiutarono di votare, ritenendo quel voto una pagliacciata.
Anche a Roma, come già in Piemonte e poi in tutti i territori italiani conquistati, il governo voleva sopprimere gli ordini religiosi e incamerare i beni della Chiesa! Ovviamente la questione, in quanto sede del Papato ma anche delle Case generalizie di tutti gli ordini religiosi del mondo, era particolarmente ardua! Il governo cercò di risolverla unilateralmente il 13.05.1871, con la cosiddetta “Legge delle Guarentigie“. Si assicurava una certa libertà al Papa e perfino un indennizzo per i beni incamerati (3.225.000 di Lire, somma cospicua ma comunque irrisoria rispetto ai beni immobili violentemente incamerati anche solo nella città di Roma); in controparte lo Stato si assicurava di fatto il controllo totale della Chiesa (persino le nomine dei Vescovi, con la facoltà di impedirne addirittura la presa di possesso delle rispettive diocesi).
Giustamente il Papa Pio IX, a suo svantaggio ma per il bene della Chiesa, rifiutò tale legge iniqua e ingannevole.
Nel 1873, con la legge 1402, si giunse così anche a Roma a questo immane latrocinio: si soppressero tutti gli ordini religiosi e se ne incamerarono tutti i beni! Così, dal 1855 al 1879, furono soppresse più di 4.000 case religiose, con 57.492 componenti!
Si abolirono anche le facoltà di Teologia (ancor oggi incredibilmente proibite nelle università statali italiane; invece sono presenti in molte università statali europee, compresa la Germania cattolica e luterana).
Ciò che non venne espropriato e incamerato, venne (come il potere cerca sempre di fare) ‘addomesticato’. Ecco l’idea di “libertà religiosa”, presente già in Cavour e ancor oggi nella falsa concezione di “laicità” dello Stato. Parrocchie e Diocesi poterono infatti rimanere in funzione (anche se 100 diocesi furono di fatto lasciate senza vescovo), ma la Chiesa doveva occuparsi solo del “servizio religioso”, cioè delle anime, del culto, senza intromettersi assolutamente nelle questioni sociali e statali.
Anche le cosiddette “Opere Pie”, quelle 24.000 istituzioni caritative della Chiesa di cui peraltro lo Stato aveva ed ha immenso bisogno per far fronte agli enormi problemi sociali, inizialmente furono lasciate in funzione, anche se comunque sottomesse allo Stato; poi furono soppresse, a partire ovviamente da quelle dedite alla scuola, che doveva passare al monopolio dello Stato (cosa di cui paghiamo il prezzo ancor oggi)!
Oltre a respingere queste leggi inique (compresa quella delle Guarentigie), nel 1874, il Papa Pio IX, col famoso “Non expedit”, pur promuovendo l’opera sociale dei Cattolici (basti pensare all’Opera dei Congressi), ritirò per protesta la presenza dei Cattolici dalla politica (il celebre “né eletti, né elettori”), perché di fatto retta da un Parlamento falso e anticlericale.
Come sappiamo, a tale gravissima questione si cercò di porre mano solo nel 1929 coi “Patti Lateranensi” (e la creazione simbolica dello Stato della Città del Vaticano come sede del Papa) e il relativo Concordato con la Chiesa Italiana; ma più realisticamente, viste le restrizioni della dittatura fascista, una relativa libertà fu raggiunta per i cattolici in politica solo nel secondo dopoguerra, quando i Cattolici si coagularono nella Democrazia Cristiana, che fu il partito di maggioranza relativa per 45 anni.
Il nuovo Regno d’Italia
Abbiamo già osservato quale fu il debito pubblico da capogiro raggiunto dal Regno sabaudo prima del 1860; mentre lo Stato Pontificio già nel 1859 aveva raggiunto, come già ricordato, il pareggio di bilancio.
Persino il tanto vituperato (dai Piemontesi) Regno delle due Sicilie (governo borbonico) aveva un debito pubblico minimo e perfino le tasse erano molto più basse di quelle, elevatissime, che poi impose il Regno d’Italia.
Ebbene, dopo il 1870 il bilancio del nuovo Regno d’Italia andò totalmente fuori controllo.
Se sempre il Regno sabaudo privilegiò, come s’è detto, le spese militari, a scapito della società civile, già nel 1866 il Regio Esercito divorava 1/4 del bilancio statale e la Regia Marina addirittura 1/3!
Prima dell’unità d’Italia fatta dai Piemontesi, la somma delle spese di tutti gli Stati che componevano allora l’Italia era di circa 500 milioni di Lire, con un debito di 2 miliardi. Fatta l’Italia, in 5 anni (1861-1866) le entrate (specie per la pressione fiscale, cioè le tasse imposte ai nuovi sudditi) salirono di 1/3 (da 409,5 milioni a 600 milioni); ma il disavanzo si quintuplicò (da 102 milioni a 580 milioni).
Il nuovo Regno d’Italia dunque, nonostante i finanziamenti massonici internazionali e l’incameramento della maggior parte dei beni della Chiesa (e perfino di quelli demaniali: 2,5 milioni di ettari di terra, specie nel centro-sud), si trovò dunque a fare i conti con enormi problemi finanziari, schiacciato da un grave deficit e addirittura sottoposto a speculazioni internazionali.
A soffrire particolarmente di questa voragine delle finanze del nuovo Regno d’Italia furono proprio la fasce più deboli della popolazione, specie dei contadini (quando allora erano ancora il 90% dell’intera popolazione italiana). L’impoverimento di queste classi sociali fu drammatico. In pochi anni le proprietà terriere si concentrarono in mano di pochi (dal 1861 al 1881 i proprietari terrieri calarono di 802.147 unità). La classe contadina, che sentiva non a torto il nuovo Stato come ‘straniero’ ed estraneo alla propria cultura e identità, fu pure gravata da incredibili imposte: ad esempio, nel 1869 la nuova terribile “Tassa sul macinato” provocò addirittura un’insurrezione, specie nelle campagne emiliane, che venne sedata con violenza, così da provocare 250 morti e migliaia di feriti. Prodotti di largo consumo popolare come il sale da cucina e il tabacco divennero “monopolio di Stato” (da cui la tipica istituzione italiana della “Tabaccheria”), quindi senza concorrenza e con prezzi stabiliti dallo Stato (in alcune zone d’Italia, come la Toscana, per protesta ci si abituò a fare il pane senza sale, usanza che perdura tuttora). Per spillare ancora soldi dal popolo, speculando in fondo sulla loro miseria, si inventò e diffuse persino il gioco del Lotto (una specie di “tassa sulla speranza” dei poveri, come qualcuno lo definì).
Il popolo è ridotto alla miseria più cruda; per questo è anche flagellato da terribili malattie. Ne risentono in particolare i bambini: in quegli anni il 45% dei morti è di bambini nei primi 5 anni di vita (dal 1861-1870 1/4 dei bambini morì nel primo anno di vita)!
Inoltre le scelte del governo liberale, secondo i dettami del trionfante capitalismo internazionale, promosse, a scapito dell’agricoltura, una spietata industrializzazione, peraltro senza alcun rispetto dei diritti degli operai (che erano costretti, fin da giovanissimi, a turni e condizioni di lavoro massacranti e disumani). Questa incontrollata industrializzazione provocò un folle abbondono della campagna, con tutti i valori umani e religiosi annessi e che la bimillenaria tradizione cattolica aveva saputo trasmettere, ed una selvaggia e rapida urbanizzazione (come del resto era avvenuto già a Torino). Questo provocò pure un imbarbarimento delle coscienze, specie nei più giovani, che si tradusse non a caso in una crescita esponenziale della delinquenza (abbiamo osservato sopra come molti Santi, specie S. Giovanni Bosco, cercarono in tutti i modi di ovviare a questo dramma sociale, oltre che a curare il bene delle anime di quei poveri ragazzi abbandonati a se stessi e spesso in preda alla malavita).
La malavita crebbe infatti in modo vertiginoso. Il nuovo Stato dovette allora rafforzare la propria repressione (invece di pensare alla vera educazione dei ragazzi e dei giovani; lapidaria in proposito l’espressione significativa di S. Giovanni Bosco: “se non si formano le coscienze della gioventù con buone famiglie e santi sacerdoti, si devono poi reprimere i cittadini coi Carabinieri”).
La popolazione carceraria italiana aumentò così a dismisura e raggiunse nel 1872 il primato europeo, con 72.450 detenuti, cioè una percentuale di 270 carcerati ogni 100.000 abitanti (a confronto dei 138 della Francia, dei 107 dell’Inghilterra e dei 63 del Belgio).
Il Meridione, invaso da Garibaldi con l’appoggio della massoneria inglese e persino comprato con denaro (altrimenti risulterebbe inspiegabile la sostanziale desistenza borbonica), fu poi di fatto abbandonato a se stesso (a riguardo ad esempio delle bonifiche idrauliche, al Nord andarono 455 milioni, al Sud 3 milioni). Anche questo permise il grande potere della “Mafia”, che pareva garantire (e molti lo pensano ancor oggi) molta più sicurezza, economica e sociale, che il nuovo Stato, sentito come straniero e invasore. Tale miseria e abbandono provocò (e in fondo non ha smesso di farlo) anche una enorme emigrazione, verso Roma e molto di più verso il Nord, specie Torino e Milano; ma ciò provocò e provoca un ulteriore impoverimento del Sud (come oggi gli immigrati dell’Africa per i loro Paesi d’origine; non a caso i Vescovi africani supplicano i loro giovani di rimanere e i governi mondiali di aiutarli a rimanere! contrariamente alle logiche immigrazioniste, tanto promosse dai ‘poteri forti’ mondiali, che hanno ben altri scopi…).
Moltissimi Italiani cominciarono poi ad emigrare all’estero (creando nel mondo per molti decenni persino un pregiudizio anti-italiano, nonostante l’accoglienza e il progresso permesso da molti Paesi ospitanti).
Dal 1876 al 1914 emigrarono dall’Italia 14 milioni di persone!
Prima del 1870, Roma aveva solo 200.000 abitanti. Dopo la sua conquista e divenuta capitale d’Italia, scoppia di nuovi abitanti, ma anche di caserme, faraonici Ministeri e strutture statali (si pensi ad esempio al Palazzo di Giustizia, che i romani chiamano ancora il ‘Palazzaccio’, lungo il Tevere e vicino al celebre Castel S. Angelo). Nella Capitale, da allora fino ad oggi, non trionfa l’industria ma si moltiplicano le strutture dello Stato (con un esorbitante numero di impiegati, anche di proverbiali, inutili e annoiati ‘parassiti’) di uno Stato centralizzato che deve controllare tutta la vita dei sudditi (al contrario del “principio di sussidiarietà” proprio della Dottrina sociale della Chiesa, v. n. 15).
Si costruirono enormi quartieri, spesso secondo lo stile torinese di vie parallele e perpendicolari, talora distruggendo sobborghi medievali, chiese, giardini, opere d’arte. Il quartiere Prati, adiacente al Vaticano e fino ad allora appunto composto ancora da prati verdeggianti, fu costruito con questo stile e fu riempito, oltre che di palazzi abitativi, anche di immense caserme (risulta sia stato tra l’altro progettato in modo tale che, nonostante sia vicinissimo, non si dovesse scorgere la cupola di S. Pietro, pur essendo la più grande del mondo; e così risulta ancor oggi). Sul colle Esquilino, tra i più alti di Roma, su cui prima del 1870 svettava isolata la mole bianca di S. Maria Maggiore (prima chiesa dedicata alla Madonna in Occidente e forse la chiesa più bella di Roma, con un superbo campanile del ‘400), si costruì un intero quartiere che la circondasse e ne ostruisse la vista, senza peraltro riuscirvi pienamente. Le vie adiacenti, non a caso, sono tutte dedicate agli eroi del Risorgimento. Inoltre proprio sull’Esquilino doveva sorgere la grande Stazione ferroviaria (Termini), segno, come tutte le grandi stazioni ferroviarie d’Europa, del nuovo mondo progredito (pensiamo anche all’imponenza monumentale della stazione centrale di Milano).
Molto dell’immenso patrimonio artistico e culturale della Città “caput mundi” venne rovinato se non distrutto.
Oltre al giardino oltre il Tevere, costruito proprio da Pio IX per il popolo, si distrussero altri stupendi giardini, come quello della villa cardinal Ludovisi, nelle adiacenze di via Veneto.
Per costruire il monumentale corso dedicato a Vittorio Emanuele II (guarda caso), che da Piazza Venezia porta al Vaticano, si distrussero abitazioni, palazzi, chiese e monumenti medievali. Solo le vestigia pagane della Roma imperiale dovevano essere preservate.
Potremmo infine con onestà chiederci che cosa sia stato costruito di davvero artistico, che ancor oggi il turista vada necessariamente a visitare, nella Roma post-risorgimentale (per non parlare degli enormi e anonimi quartieri periferici costruiti in seguito, nel XX secolo), a parte appunto il discusso e discutibile “Vittoriano” e in seguito, nell’epoca fascista, l’EUR e la zona Olimpica.
E per non sembrare essere un giudizio ‘di parte’, ascoltiamo la confessione del massone Ferdinando Martini, che fu poi Ministro dell’Istruzione, che così scriveva a Giosuè Carducci, riferendosi certo non solo ai palazzi e ai quartieri: “Abbiamo voluto distruggere e non abbiamo saputo nulla edificare”!
Dentro tutto questo dramma, che metteva numerosissime famiglie sul lastrico, si aggiunse, sullo stile dei nuovi Stati moderni dopo la rivoluzione francese, la leva obbligatoria, cioè il servizio militare obbligatorio per tutti i giovani maschi “abili” – obbligo rimasto fino a pochi anni orsono – il che voleva dire perdere anni preziosi per il proprio lavoro, per la propria famiglia di origine e in vista di quella che si sarebbe formata, per un vago imparare il mestiere delle armi (in passato sempre volontario e pagato, da cui infatti il termine “soldato”), oltre a causare talora uno smarrimento morale di tanti giovani, in quell’essere improvvisamente esuli da ogni riferimento familiare, sbattuti da un capo all’altro della Penisola e con commilitoni di cui talora a stento si comprendeva la lingua (tanto le genti italiane parlavano in dialetto), così da poter spesso sconvolgere gli insegnamenti ricevuti nell’infanzia e condizionare il resto della vita.
Oltre ad assicurarsi le leve politiche, era indispensabile che la Massoneria prendesse in mano le leve culturali, dell’informazione, della stampa, della comunicazione e soprattutto dell’istruzione statale (praticamente con un monopolio che, almeno economicamente, sussiste in Italia, e solo in Italia tra i Paesi europei, ancora oggi).
Infatti, anche l’apparentemente nobile diffusione dell’istruzione (in realtà fino ad allora erano le scuole cattoliche, in genere gratuite, ad assicurare l’istruzione; molti maschi studiavano nei Seminari, anche se poi non si facevano preti; nei piccoli paesi erano persino i parroci ad insegnare ai bambini a leggere e scrivere e a scoprire i fondamenti della cultura e della vita), la nuova istruzione statale, sotto il comando del faraonico Ministero della Pubblica Istruzione, con i suoi programmi obbligatori e i libri di testo proni alle nuove ideologie, in realtà nascondeva il fondamentale progetto massonico di cambiare le coscienze e le idee degli Italiani, per strapparle finalmente dall’identità cristiana cattolica e volgerle al nuovo “credo” illuminista e liberale (poi nel ‘900 sarà quello fascista e quindi quello comunista, di fatto imperante ancor oggi, sia pur sotto mentite spoglie).
Infatti al Ministero della Pubblica Istruzione, con l’ostentata grandiosità e monumentalità della sua sede (quasi un tempio) che troneggia ancor oggi su viale Trastevere, si misero subito eminenti intellettuali massonici, come Francesco De Sanctis, Michele Coppino e Guido Baccelli.
Proprio attraverso la scuola, le nuove generazioni di italiani, e specialmente (per chi può permettersi di proseguire gli studi, cioè liceali e universitari) la nuova classe dirigente e i nuovi intellettuali, dovevano essere formati su nuovi contenuti decisi dallo Stato. Si diffusero così i nuovi miti, creduti obiettivi e unica vera cultura: i miti appunto risorgimentali, quali quelli del Medioevo come “secoli bui”, della fede ostile alla ragione, alla scienza ed al progresso, atti a far credere che uno studioso, un vero uomo di cultura, non possa più credere ai dogmi e alla fede cattolica, da lasciare al popolino ignorante; semmai la fede poteva rimanere, anche nella persona colta, se voleva, solo come qualcosa di “sentito”, in fondo di sentimentale, della sfera privata, intima, solo nella coscienza (quello che è in fondo il “modernismo”, cioè lo spirito appunto liberal-massonico, penetrato poi pure nella Chiesa come la peggiore e sintesi di tutte le eresie, secondo la celebre espressione di S. Pio X nell’Enciclica Pascendi del 1907, che stigmatizzò questa pericolosissima e diabolica riduzione della fede). Intere Facoltà, come quelle di Filosofia ma anche di Medicina, caddero violentemente in mano al liberalismo massonico (per Medicina, secondo un’impostazione sostanzialmente materialista e positivista).
Perfino per l’infanzia, si crearono nuovi libri e racconti, magari belli e affascinanti – come il famoso libro “Cuore” del massone De Amicis – dove però ogni riferimento religioso, così vivo nel popolo italiano, era invece improvvisamente sparito, quasi senza che ce se ne accorgesse.
[E anche quando, nel secondo dopoguerra del ‘900, la Democrazia Cristiana si assicurò quasi sempre tale Ministero della Pubblica istruzione, di fatto incredibilmente la cultura che vi passò e si impose al Paese non fu quasi mai cattolica, ma ad essa ostile, come prima]
Il governo, sulla scia di quello Piemontese, si diceva “liberale”, ma anche la libertà di stampa era di fatto soppressa (era persino proibito stampare le Encicliche del Papa)!
Infine, dopo il 1870 affluirono a Roma laicissimi speculatori accorsi dall’intera Europa (tra cui le attivissime società immobiliari di ebrei francesi, inglesi e tedeschi), oltre che italiani.
La finanza massonica internazionale entrò senza scrupoli pure nella “Banca Romana”, provocandone poi tra l’altro un grande scandalo ed il crollo nel 1893.
L’Italia si ridusse sempre più a colonia (economica, culturale, religiosa) di potenze straniere (come anche l’attuale UE vuole ridurla). E, dopo essere stato il centro culturale e artistico più importante del mondo intero (qua è nata anche la scienza, qua c’è l’80% del patrimonio culturale del mondo!), in conseguenza al fatto di essere comunque il centro della Cristianità, dal 1870 di fatto è uscita sempre più dal panorama del mondo “che conta”, dove dire “italiano” fa spesso sorridere ironicamente (a meno che non ci prostriamo alle potenze straniere).
Anche se non ce lo meritiamo…. ma un po’ ce lo cerchiamo.
Ecco cos’ha davvero rappresentato quel XX settembre!
Non si tratta di riaprire polemiche storiche, ma di amore per la verità, oltre che per la Chiesa, per il nostro Paese, e ovviamente per la salvezza delle anime, specie dei giovani, tanto minacciate anche da questa propaganda e falsità risorgimentale anticattolica, che non pare del resto esser ancora tramontata!