Specie negli anni passati, come conseguenze delle ideologie del ’68 e di un pacifismo unilaterale e nient’affatto rispettoso della pace, c’era chi tra i cattolici credeva che vita cristiana e servizio militare, nelle forze armate o dell’ordine, fossero incompatibili. Questa posizione, oltre ad essere ideologica e dottrinalmente errata (un pacifismo appunto non consono all’autentica morale cristiana, perché c’è invece anche il dovere morale della difesa dei cittadini e della nazione), è contraddetta anche da numerosi e gloriosi esempi nella storia della Chiesa. Storie di fede ardente e di eroico amore per il prossimo, anche nelle forze armate. Eccone due esempi eroici, offertoci da due Carabinieri, forse presto proclamati Beati.

L’Arma dei Carabinieri, così intensamente inserita nel territorio nazionale (anche in piccoli centri) e avvertita con fiducia e gratitudine dal popolo italiano, ha storicamente anche una significativa sensibilità cristiana, come patrimonio ideale e morale della sua stessa identità. Non a caso, sulla scia del motto araldico dell’Arma “Fedele nei secoli”, ha e sente come propria patrona la Vergine Maria, venerata significativamente col titolo di Virgo fidelis (vedi nel sito dell’Arma).

Nel corso del XX secolo sono stati molti gli esempi di eroicità nelle virtù umane e cristiane anche tra giovani Carabinieri e nel corso della II Guerra Mondiale sono emerse delle figure di particolare rilievo e persino di santità. 
Tra queste la più famosa è quella di Salvo d’Acquisto (leggi) (vedi anche dallo stesso sito dell’Arma).
Salvo Rosario Antonio D’Acquisto nacque a Napoli il 15.10.1920. Di carattere forte e nello stesso tempo mite e silenzioso, era attaccatissimo ai suoi familiari e amava la disciplina e il lavoro. Dopo aver studiato in scuole religiose, che incisero molto sulla sua formazione umana e cristiana, nel 1939 entrò nell’Arma dei Carabinieri, segnalandosi sempre per attaccamento al dovere, dedizione al prossimo e amore alla Patria. Il 23.09.1943, quando non aveva ancora compiuto 23 anni, mentre era già vice-comandante della stazione dell’Arma di Palidoro, sul litorale laziale poco a nord di Roma, si offrì per salvare la vita a 22 ostaggi, catturati durante un rastrellamento delle truppe naziste, pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre, e che stavano per essere fucilati; prese il loro posto davanti al plotone d’esecuzione! 
Per questo atto eroico è stato insignito della Medaglia d’oro al valor militare. È pure in corso (dal 1983) la sua Causa di beatificazione (ha dunque già il titolo di Servo di Dio). Oltre all’esame della “eroicità delle sue virtù”, il processo sta ora verificando se si possa dare anche il titolo di “martire … per testimonium caritatis heroicis”. Dal 1987 la sua tomba si trova infatti già nella basilica di Santa Chiara a Napoli.

Sempre nell’Arma dei Carabinieri, tra giovani gloriosi di un’Italia che era profondamente cristiana, durante la II Guerra Mondiale abbiamo pure la testimonianza di fede e il sacrificio eroico di Albino Badinelli (leggi).
Nato il 6.03.1920 in un paesino del retroterra ligure di Levante (Allegrezze, GE), Albino era l’8° di 14 figli, di una famiglia cristiana, dove regna una fede semplice ma forte, con la certezza dell’esistenza di Dio, dell’anima, dell’aldilà, e corredata con lo spirito di sacrificio, amore per Dio e per il prossimo, una famiglia dove si studia, si lavora nei campi e alla sera tutti, grandi e piccoli, si recita insieme il S. Rosario.
Attuando un desiderio che aveva fin da bambino, Albino a 20 anni si arruolò tra i Carabinieri. Fu però subito inviato molto lontano, nella Jugoslavia allora italiana. 
Un suo fratello (Marino) fu mandato invece soldato sul fronte russo … e non vi tornò più!

Essendo tra i dispersi, la mamma scrisse persino a Padre Pio da P. per avere notizia “per via mistica”; ma la risposta del santo Cappuccino fu dolorosa: giaceva sepolto in una fossa comune in Russia.
Solo 40 anni dopo il Ministero della Difesa poté confermare la triste notizia.

Nel 1943, Albino tornò vicino a casa, prendendo servizio nella stazione dei carabinieri di Santa Maria del Taro, nell’appennino ligure-parmense. Viveva amicizie profonde, cariche però sempre di spinta missionaria. Scriverà uno dei suoi amici e colleghi: «Albino era una persona speciale, dotata di grande umanità e profonda religiosità. Andava ogni giorno a Messa e spesso ci invitava tutti a pregare il Rosario con lui. Era un grande esempio per noi, che gli eravamo legatissimi».
Quando dopo l’armistizio dell’8 settembre la guerra divenne purtroppo anche civile tra gli stessi Italiani, pure l’Appennino emiliano divenne teatro di vendette e attacchi reciproci. Nel 1944 alcuni Partigiani attaccarono la sua caserma, devastandola con una bomba. Seguendo gli ordini di un superiore, Albino ebbe il permesso di tornare a casa; ma volle liberarsi del moschetto, perché sconvolto dall’idea di potersene servire per uccidere dei fratelli. Ma anche nella sua zona dell’Appenino ligure ferveva quella tremenda lotta, tanto ideologica e politica quanto fomentata talora da remoti rancori personali, che divideva gli stessi Italiani. Fu in quel contesto che, nell’agosto del 1944, la Divisione nazifascista ‘Monterosa’, entrata in quei territori, incendiò molte case. Il 27 agosto i Partigiani compirono allora una rappresaglia contro quella Divisione, provocando diversi morti. Dopo due giorni, molte case dello stesso paesino di Albino (Allegrezze) furono incendiate. Allora, il 2 settembre i fascisti catturarono 20 ostaggi e con dei manifesti affissi ai muri avvisarono tutti i giovani renitenti a presentarsi alla locale Casa del Fascio (di S. Stefano d’Aveto), altrimenti gli ostaggi sarebbero stati uccisi e le loro case incendiate. Pur non essendo membro attivo della Resistenza, tra i giovani renitenti c’era pure Albino Badinelli; il quale prese però subito l’eroica decisione: «Devo presentarmi prima che venga ucciso qualcuno, perché non avrei più pace. Io devo essere il primo!». Presentatosi dunque alla Casa del Fascio, dichiarò di appartenere all’Arma dei Carabinieri e di volere la pace; ma il Maggiore (Cadelo) gli rispose urlando che aveva mancato al suo dovere di catturare i disertori ed emise la terribile sentenza: «Plotone d’esecuzione!». Albino chiese a quel punto di potersi confessare, ma gli venne negato. Un giovane presente ebbe però la pietà di andare ugualmente a chiamare un sacerdote del posto. Albino si confessò, pregò e chiese a Dio persino di perdonare coloro che stavano per ucciderlo! Infatti poco dopo, trovandosi davanti al plotone d’esecuzione, Albino baciò con grande devozione il Crocifisso e, come Gesù dalla Croce, disse: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno»! La sua testimonianza di fede fu così forte che qualcuno del plotone si rifiutò di sparare. Venne comunque raggiunto da tre colpi di arma da fuoco, due al cuore e uno alla testa. Era il 2.09.1944; Albino Badinelli aveva 24 anni. L’odio, certo non solo politico, del Maggiore Cadelo giunse persino a proibire che la salma dell’eroico Carabiniere venisse sepolta; ma di notte il sacerdote ed alcuni compaesani la trafugarono e le diedero cristiana sepoltura. Lo piansero, oltre ai cari familiari, i numerosi e affezionatissimi amici e la sua fidanzata (che nel suo stesso testamento chiederà di portare con sé nella tomba le indimenticate lettere che Albino le scriveva). La testimonianza di fede, offerta eroicamente dal giovane Albino anche di fronte al plotone d’esecuzione, toccò alla fine anche il cuore indurito del Maggiore Cadelo, che rinuncio al proposito di uccidere gli ostaggi e incendiare il paese. Anche lui, però, in quell’interminabile successione di vendette, verrà ucciso in un’imboscata qualche giorno dopo.
Anche la mamma di Albino, come fece il figlio, perdonò agli uccisori del figlio e per tutta la vita continuò addirittura a pregare per loro!
Albino Badinelli, anche se solo nel 2017, è stato insignito della “Medaglia d’oro al merito civile”. La Chiesa ha sempre guardato con ammirazione alla sua testimonianza (potrebbe presto aprirsi la Causa di beatificazione) e l’ha proposta come esempio ai giovani. Ne hanno addirittura parlato i Papi Pio XII, Paolo VI, Benedetto XVI e Francesco.
 

Che sia in corso, almeno nelle sue fasi preliminari, la sua Causa di Beatificazione, sorprenderà forse molti di coloro che, essendo giovani negli anni ’70, ricorderanno certamente come tale figura fosse ‘demonizzata’ non solo dalla stampa dell’ultra-sinistra (v. Lotta continua, che ha indotto il suo assassinio!), ma allora anche dall’italica “cultura che conta”, quasi tutta orientata ‘a sinistra’ e che aveva voce in capitolo pure sui grandi giornali nazionali.
Stiamo parlando del Commissario Luigi Calabresi.
Nato a Roma il 14.11.1937 e laureatosi in Giurisprudenza all’università La Sapienza, mentre già da giovane frequentava attivamente il movimento cristiano “Oasi” (fondato da p. Virginio Rotondi), entrò nel 1965 nel Corpo delle guardie di Pubblica sicurezza. Molto rapidamente divenne prima Commissario-capo quindi Vice-capo dell’Ufficio politico della Questura di Milano; lì dovette occuparsi soprattutto di indagini relative agli ambienti della cosiddetta sinistra extraparlamentare, di gruppi maoisti e di quelli anarchici. Eravamo intanto entrati in anni molto duri per la società: era il tempo della grande contestazione studentesca del ’68 come delle cruenti lotte sindacali che stavano mettevano a soqquadro il Paese, entrambe egemonizzate dall’ideologia marxista, tensioni che sarebbero degenerate perfino nei cosiddetti “anni di piombo”, passando dalla cultura e politica di sinistra, diventata egemone, specie tra i giovani, all’estrema sinistra extra-parlamentare di Lotta continua, Il Manifesto e affini, fino al terrorismo delle Brigate Rosse (anni che trovarono il proprio culmine nel 1978 con il rapimento e omicidio del Presidente Aldo Moro e lo sterminio della sua scorta).

Il commissario Luigi Calabresi, in quel periodo, indagò pure sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato nel 1972 da una bomba che il celebre editore stava collocando su un traliccio a Segrate (MI)! 
Per questo si trovò ad investigare pure su un traffico internazionale di esplosivi e di armi a scopo terroristico.

Fu in quel montante e tenebroso clima politico e sociale, che il Commissario Calabresi dovette occuparsi pure delle indagini relative al terribile attentato (una bomba che provocò 17 morti e 88 feriti) avvenuto alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, nella centralissima piazza Fontana a Milano, il 12.12.1969. Fu in occasione di queste indagini, seguenti immediatamente all’attentato e su un elevato numero di indagati, che durante l’interrogatorio dell’anarchico Giuseppe Pinelli, nella notte del 15.12.1969 (in un momento in cui peraltro un’inchiesta poté appurare che il Commissario non era presente), l’anarchico in questione cadde dalla finestra dell’ufficio del Commissario e morì. Fu a quel punto che si riversò sul Commissario Calabresi una terrificante ondata di condanna sociale, pilotata in modo violentissimo non solo dalle proteste dell’estrema sinistra, ma da parte di tutto il mondo intellettuale di sinistra (compreso Dario Fo, che realizzò sul caso nientemeno che un’opera teatrale: “Morte accidentale di un anarchico”), allora appunto egemone anche nella grande stampa.
Fu così che la vita del Commissario divenne un incubo, un martirio, non solo per gli attacchi giornalistici e persino sui muri delle città e lungo le strade (in cui scritte dell’estrema sinistra incitavano al suo assassinio), ma perché assurse a simbolo stesso del nemico ideologico da abbattere (in quanto oppositore della sinistra, della contestazione, della “lotta di classe”). Egli stesso dichiarò a un giornalista in quel periodo: «Da due anni sto sotto questa tempesta e lei non può immaginare cosa ho passato e cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio non so come potrei resistere!».
Si arrivò così al 17.05.1972, quando il Commissario Luigi Calabresi, appena uscito di casa la mattina, fu ucciso con colpi d’arma da fuoco sparatigli alle spalle da due sicari. Aveva 34 anni e lasciava la moglie Gemma (incinta del 3° figlio: Luigi) e i figli Mario (che racconterà poi in un libro la storia della sua famiglia) e Paolo. La moglie, anch’ella figura esemplare di sposa e mamma cristiana, portò avanti negli anni la sua pacifica lotta per ottenere giustizia, ma soprattutto per far conoscere la testimonianza di vita cristiana del marito barbaramente ucciso; ma cadde anch’ella, almeno per quasi 20 anni, in un doloroso ostracismo sociale (il Presidente della Repubblica Sandro Pertini non volle neppure riceverla).

L’inchiesta sulla morte di Pinelli, condotta dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, terminerà il 27.10.1975 con l’assoluzione di Calabresi, appunto già scomparso, dichiarando come ‘accidentale’ (né omicidio né suicidio) la caduta dell’anarchico Pinelli in quella notte.

Dell’omicidio del Commissario Calabresi furono accusati, solo dopo molti anni, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino (come esecutori) e Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri (come mandanti), tutti esponenti di Lotta Continua [Adriano Sofri ha fatto poi parte del Partito Radicale e del Partito Democratico ed è stato pure giornalista de L’Espresso e de L’Unità]. Determinante per arrivare ai responsabili dell’omicidio Calabresi fu nel 1988 la volontaria confessione e deposizione di uno di loro, Leonardo Marino, dopo essersi convertito con sincerità e profondità alla fede cattolica.
Luigi Calabresi, dopo anni di voluto e partigiano oblio, solo tardivamente ha avuto l’onorificenza di una “Medaglia d’oro al merito civile”. Era invece stimato già dal Papa Paolo VI per le sue qualità cristiane; e Giovanni Paolo II, che poté parlare a lungo con la moglie Gemma, lo definì «testimone del Vangelo e eroico difensore del bene comune». Nel 2007 la Chiesa ha avviato appunto la fase preliminare della sua causa di beatificazione.
 

Purtroppo negli ultimi decenni la Magistratura, o una non piccola parte di essa, ha dato non di rado prova di interventi politici ‘di parte’ (sinistra) e persino di volersi di fatto sostituire al potere legislativo (Parlamento) ed esecutivo (Governo) del Paese, per promuovere determinati partiti politici (da cui pare impossibile democraticamente opporsi, pena cadere sotto la sua ghigliottina) e persino le nuove ideologie (ad esempio contro la vita e la famiglia) che il “pensiero unico dominante”, sostenuto economicamente e mediaticamente da potenti oligarchie mondiali, vorrebbe imporre, almeno a tutto l’Occidente.
La Magistratura ha conosciuto però non solo eminenti figure, esemplari per il proprio impegno civico e professionale, ma persino testimonianze eroiche di vita cristiana.
Una di queste è quella del magistrato Rosario Angelo Livatino, brutalmente ucciso dalla mafia (Stidda, operante specialmente nella zona di Agrigento, dove condusse con coraggio, perizia e successo le proprie indagini) il 21.09.1990, a neppure 38 anni di età.
Appartenente all’Azione Cattolica già da studente liceale, Angelo Livatino frequentava quasi quotidianamente la S. Messa; mantenne i suoi impegni e la sua testimonianza cristiana anche quando raggiunse i più alti e impegnativi incarichi nel mondo della Giustizia, che visse come vocazione e carità cristiana, tanto che in certi ambienti a lui ostili e persino dalla mafia veniva con disprezzo chiamato “santocchio” o “piccolo prete”! (leggi)
Il 21.12.2020 il Papa ha promulgato il decreto con il quale se ne riconosce addirittura il martirio “in odium fidei”. Sarà così proclamato Beato il prossimo 9 maggio ad Agrigento, significativamente nel 28° anniversario della storica visita di Giovanni Paolo II in quelle terre, di tradizionale fede cristiana ma anche flagellate dalla mafia.

Molti ricordano, perché diventate celebri, le forti parole che Giovanni Paolo II gridò a braccio, al termine della S. Messa nella Valle dei Templi di Agrigento il 9.05.1993 (aveva incontrato i genitori di Livatino poco prima e definì il giudice «martire della giustizia e indirettamente della fede»), contro i mafiosi, richiamandoli alla conversione e che avrebbero dovuto presentarsi un giorno davanti al Giudizio di Dio! (leggi e vedi)
Con tutta probabilità sono in riferimento a queste forti parole del Pontefice – che pure avevano toccato le anime anche di molti malavitosi (che credono di avere comunque un senso religioso e sostengono certe manifestazioni popolari cristiane – leggi), essendo un richiamo al Giudizio di Dio, da cui non si può scappare e che ha conseguenze eterne – i due ordigni fatti esplodere il 27 luglio successivo a Roma, nei pressi di S. Giovanni in Laterano e di S. Giorgio in Velabro.